Ecco, Silvio Berlusconi. I miei ricordi di cronista cominciano trent’anni fa, nella sua Milano accorsa ad applaudire la discesa in campo del Cavaliere. Scrivevo per il Manifesto e quella folla di imprenditori, padroncini, commercianti arrabbiati ed entusiasti, mossi da furore antipolitico, mi fecero molto effetto. A sinistra si guardava a questo brianzolo già assai discusso e in parte oscuro con una certa ilarità, con sufficienza ed evidente sottovalutazione.

C’era qualcosa a prima vista di folcloristico nella folla dei primi berlusconiani. Anticomunisti, anti tasse, anti Stato. Sembrava l’ennesimo rigurgito italico destinato a rientrare negli argini del sempre uguale. Non fu così. Silvio spazzò via la sinistra, le sue sicumere, i suoi baffi. Farne un bilancio, oggi, è ancora difficile.

Innanzitutto occorrerebbe scindere il politico dall’imprenditore. E questo è compito impossibile. Berlusconi non è mai riuscito a dividere gli ambiti per la semplice ragione che il conflitto di interessi, che lui ha incarnato alla massima potenza, non era un suo limite, né un problema di percorso. Il conflitto d’interessi era la ragione stessa della sua impresa politica: era sceso in campo per salvare le sue aziende e avrebbe usato la politica e le istituzioni per proteggere i suoi interessi economici e giudiziari.

Silvio Berlusconi ha avuto, ai miei occhi, un’enorme responsabilità: quella di relativizzare all’estremo l’etica pubblica. Il confine tra interesse privato e istituzioni è stato da lui travolto, sia nell’idea che il voto parlamentare fosse una merce e l’aula un mercato, sia per mezzo di leggi ad personam votate per procrastinare o cancellare i suoi processi. Sia attraverso la distorsione del mercato televisivo per legge e mediante l’occupazione e l’addomesticamento del suo principale concorrente televisivo: la Rai.

Berlusconi, pur dichiarandosi un liberale, non aveva del mercato un’idea plurale e concorrenziale, ma sfruttò il voto popolare per schiacciare i suoi concorrenti e imporre una narrazione televisiva unica. Non sempre ci riuscì, ma l’editto bulgaro, con la cancellazione di Santoro, Biagi e Luttazzi, resta una delle più vergognose pagine di censura.

A travolgere l’etica pubblica furono anche le ormai famigerate cene eleganti. Non certo su un piano di morale sessuale, ascrivibile del tutto ai fatti suoi. Ma per la profusione di mezzi e scorte pagate dai contribuenti, per l’aver esposto irresponsabilmente la sua carica pubblica a una perenne ricattabilità. Per aver mentito e fatto mentire schiere di suoi parlamentari. In sostanza, per aver sottoposto il Paese a un ludibrio internazionale nel momento più duro, quello dei conti in disordine e dei riflettori europei puntati.

Su Berlusconi e le sue colpe si potrebbe continuare a lungo: da arcitaliano ha inderogabilmente accarezzato i vizi dei suoi connazionali, a cominciare dal gusto per l’evasione di massa. Da grande impresario ha fatto credere a generazioni di ragazzi che ogni scorciatoia per il successo fosse lecita e possibile. Quanto alle relazioni pericolose con la mafia, ci sono le carte dei processi a parlare per lui.

Eppure, nonostante tutto, Berlusconi è stato un grande italiano. Dei politici di razza aveva tutte le doti: svelto, carismatico, inarrestabile, comunicativo. L’unica volta che l’ho conosciuto di persona – non ha mai accettato un invito a Piazzapulita ma mi concesse un’intervista registrata – fui colpito dall’incredibile empatia di cui era capace. Quando ti parlava, esistevi solo te. Pareva ti conoscesse da sempre, notava e ricordava dettagli minimi. Un vero incantatore. Sprigionava ottimismo, sapeva farsi concavo e convesso. Credo che questa personalità così seducente abbia rappresentato un vero valore aggiunto in politica estera.

Che sia infatti stato, da premier, un bravo capo della diplomazia occorre senz’altro riconoscerglielo. Sapeva mediare, era intimamente multipolare, nella convinzione che l’Italia potesse contare solo giocando tra le linee degli schieramenti, fuori dai blocchi. Ha inventato il telepopulismo, preceduto Trump e Beppe Grillo, svecchiato il paludato linguaggio istituzionale, stravinto nel calcio.

Quanto alla televisione, occorre fare un ragionamento. Mediaset è stata senz’altro la culla del forzismo, diciamo così, prepolitico o antropologico. Ed è stata da lui utilizzata con estremo cinismo. Ma l’irruzione della tv commerciale in Italia ha significato l’abbattimento del muro grigio e bigotto della tv di Stato. Innescando un profondo processo di rinnovamento, guidato da intellettuali e tele-sapienti del calibro di Carlo Freccero o Giorgio Gori. Dissipato e impoverito poi da un processo progressivo di telecrazia, dove gli interessi politici hanno spesso fatto premio su quelli aziendali, sacrificati all’immortalità del Presidente.

Penso oggi a Silvio Berlusconi e non riesco a non sentire un forte senso di vuoto. Trent’anni di giornalismo, di contestazioni, di polemiche, di scontri. Che battaglie. Ma se n’è andato un gigante, nel bene e nel male. E ha lasciato molti piccoli uomini.

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