La regolamentazione finanziaria costruita in risposta alla crisi dei mutui subprime e del debito pubblico europeo è nata con l’obiettivo di evitare che si ripetesse un caso di insolvenza di un grande gruppo, con effetti sistemici e la necessità di salvataggi pubblici. Per questo è focalizzata sulla solvibilità, imponendo una struttura del capitale adeguata a fronteggiare le perdite, anche in casi estremi. Si pensava che in questo modo si sarebbe eliminato il rischio di contagio nei rari casi di insolvenza, con l’onere interamente a carico di azionisti e debitori secondo una priorità definita, senza alcun costo per lo stato.

Il crollo di Credit Suisse (CS) è stato un caso isolato, ma i ribassi generalizzati che hanno colpito i titoli bancari evidenziano timori ancora diffusi, soprattutto nell’eventualità di una futura recessione. E ha messo in luce come la regolamentazione non dia un peso adeguato alla redditività del soggetto vigilato: CS era infatti ben capitalizzata, e non c’è stata corsa ai depositi. Tuttavia, appena il fallimento di SVB ha diffuso timori di crisi bancarie, gli investitori hanno subito penalizzato le banche meno redditizie e con la peggior reputazione, come CS, perché maggiormente esposte ai rischi in chiave prospettica, a prescindere dal rispetto dei parametri di regolamentazione.

Un nuovo problema

La soluzione adottata per superare crisi del CS ha inoltre creato un nuovo problema per le banche europee. La regolamentazione impone una quantità di patrimonio prevalentemente costituito dal capitale azionario e da titoli di debito subordinati, cosiddetti Tier 1, ritenuto sufficiente ad assorbire le perdite anche in casi estremi, poste prioritariamente a carico degli azionisti. Il regolamentatore ha incentivato il debito Tier 1 nel calcolo del patrimonio di vigilanza per creare, oltre agli azionisti, una seconda categoria di investitori che avessero un incentivo a monitorare la gestione della banca; e per offrire uno strumento patrimoniale meno costoso delle azioni.

Nel caso di CS, però, le autorità elvetiche hanno azzerato per primi subordinati, per far sì che le azioni mantenessero un valore residuo. Di fatto hanno preferito penalizzare i fondi stranieri, detentori dei subordinati, rispetto a risparmiatori svizzeri, Arabia Saudita ed Emirati, azionisti, sulla base di una logica di convenienza politica. La decisione svizzera ha creato un precedente che ha aumentato istantaneamente la rischiosità delle obbligazioni Tier 1 di tutte le banche a prescindere dalla loro solidità, facendone crollare i prezzi, con effetti sul costo del capitale dell’intero sistema. Basti pensare che i subordinati costituiscono in media circa il 12 per cento del capitale Tier1 delle maggiori banche europee; e il 15 circa di Intesa e Bpm, e l’11 di Unicredit, le tre italiane che li hanno emessi.

La Bce ha tranquillizzato il mercato, confermando la priorità del capitale rispetto ai subordinati nell’assorbire le perdite, riportando così l’indice dei Tier 1 ai livelli pre CS. Rimane però l’incertezza su come in futuro le banche europee utilizzeranno i subordinati, e quindi sul futuro stesso dello strumento.

I subordinati pagano una cedola fissa per almeno cinque anni, quando la banca può richiamarli alla pari, ed emetterne di nuovi (tipicamente è stato così); oppure decide di non richiamarli, e pagare in perpetuo uno spread in aggiunta al tasso swap, di solito a cinque anni. Pertanto le banche si trovano oggi di fronte all’alternativa di non richiamare i subordinati, e consolidare per sempre il debito Tier 1 al rendimento stabilito in passato.

Ma in questo modo riaccenderebbero i timori del mercato sulla rischiosità dei subordinati, perché la decisione verrebbe percepita come la dimostrazione che le banche ritengono che ci sia ormai un maggior premio per il rischio da pagare per emetterli, di fatto determinando la fine dello strumento, senza però sapere come verrà rimpiazzato. O li richiamano alla data prestabilita, e ne emettono di nuovi, dimostrando al mercato che i timori sono ingiustificati, ma pagando un costo maggiore sulle nuove emissioni stante le attuali incertezze sullo strumento e il settore bancario in generale. Oppure non li rinnovano, accettando che il capital ratio Tier1 si riduca. In ogni caso, c’è il rischio che il costo del capitale per le banche aumenti stabilmente, con ovvie ripercussioni sul costo del credito; e che venga a mancare uno strumento chiave della regolamentazione attuale.

La misura dell’incertezza

Per avere una misura dell’incertezza che ancora permane, per esempio, giovedì scorso il subordinato di Unicredit richiamabile a giugno di quest’anno, e quello di Santander, richiamabile a settembre, avevano rispettivamente un rendimento di 21 e 22 per cento nel caso di rimborso nelle rispettive date di richiamo, superiore all’8 e 9 nel caso non fossero richiamati. Un dato che indica anche come il premio per l’incertezza possa scemare se le banche decideranno in continuità col passato, richiamando i titoli e rinnovandoli.

Dopo i casi di Banche Marche e Pop Etruria, i subordinati possono essere collocati solo con investitori professionali: la questione dei Tier 1 sembrerebbe quindi non riguardare il cittadino. Ma un eventuale aumento del costo del capitale delle banche riguarda tutti. C’è di più: tanti prodotti del risparmio gestito, assicurativo e previdenziale collocati presso il pubblico italiano investono regolarmente in subordinati Tier1. Tanto basta perché il futuro di questo strumento interessi le tasche di tanti risparmiatori.

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