Chissà quale effetto avrebbero avuto le parole di Giorgia Meloni sulla stanchezza dell’occidente per il conflitto in Ucraina, se fossero state pronunciate solo un anno fa, anziché nel recente scherzo telefonico dei due abili “comici” russi. Non è azzardato ipotizzare che l’acuta sensibilità dell’epoca sarebbe deflagrata in un scandalo di portata internazionale, mentre oggi il dibattito si è esaurito in poche ore. Un segno che quel sentimento di stanchezza è in gran parte compreso e condiviso.

Sarebbe del resto difficile negare l’affanno evidente che pervade la società occidentale. È dall’11 Settembre del 2001 che siamo travolti da un’ondata incessante di eventi capaci di spazzare via ogni senso di quiete e serenità, incrinando l’illusione di poter finalmente dormire sogni tranquilli sull’accogliente giaciglio del liberalismo democratico.

La caduta delle Torri Gemelle, le infinite guerre in Afganistan e in Iraq, le crisi finanziarie, la Brexit, l’immigrazione incontrollata, la pandemia, la guerra in Ucraina e ora il nuovo il conflitto in Medio Oriente… il “mondo libero” sembra emettere un gemito di sfinimento: «Adesso basta».

Nostro malgrado, non si scorgono all’orizzonte le condizioni per fermarsi e riprendere fiato: lo stanco occidente assomiglia ai molti tra noi che, dopo una lunga giornata di fatiche, sprofondano inermi sul divano invitante, troppo spossati per trascinarsi fino al letto e guadagnarsi un sonno davvero rigenerante.

Spossatezza di ideali

Sarebbe più utile se si trattasse di una stanchezza nata dalla disperazione: quella di uomini giunti allo stremo della sopportazione, pronti a gettare l’ultimo afflato di energia che li sostiene in un tentativo estremo di mutare il proprio destino. La consapevolezza che, a un passo dalla fine, tanto vale sfondare i cancelli dell’odierno Palazzo d’Inverno o assaltare i forni manzoniani.
Ma la stanchezza dell’occidente è diversa: è uno spossamento di ideali prima ancora che di energie, frutto di “schiaffi” implacabili e incessanti che abbiamo al contrario ritenuto ogni volta sopportabili e superabili.

Non ci siamo resi conto invece che quei colpi hanno lentamente eroso il nostro capitale di risorse intellettuali, disponibilità materiali, visioni progettuali e di civiltà. Siamo stati costretti a consumare quel patrimonio culturale, economico e sociale che nell’ultimo decennio del Novecento pensavamo inesauribile, fino a che non ci è rimasto altro che il divano.
Fortunatamente, in questa apatica implosione, abbiamo portato con noi l’impegno per i diritti civili e ambientali, ma sembrano più le vestigia di un passato glorioso che un progetto nuovo con cui poterci riappropriare dello spazio andato perso. Oggi li enumeriamo come le pecore nella nostra notte insonne, sforzandoci ad evitare che l’incubo di nuovi problemi prenda il sopravvento sul nostro dormiveglia.

Ogni attimo perso in questa condizione sospesa, senza che si produca nulla di nuovo o si riesca davvero a rifiatare, fiacca qualunque velleità di costruzione di un nuovo pensiero. Servirebbe potersi concedere un momento di quiete reale, di riposo profondo, capace di farci risvegliare rigenerati nelle idee, pronti ad andare oltre il sussulto di una forma istintuale di sopravvivenza di fronte all’ennesimo pericolo.

Un altro futuro

Ma possiamo permettercelo il sonno? Nel mondo di oggi pare impossibile assopirsi e placare i problemi che si affastellano dinnanzi alla nostra confusa visione. Anche da spossati dobbiamo affrontarli, mentre siamo chiamati a ideare modi diversi e creativi per rigenerarci e costruire progetti per concepire l’alba di domani.

Forse, per scuoterci, dobbiamo convincerci che il Palazzo d’Inverno da assaltare oggi è proprio quella nostra incapacità di generare nuovo pensiero. Raccogliere le ultime forze per alzarci dal divano e immergere la faccia nell’acqua gelida della consapevolezza. Se non sarà il letto, allora dovrà essere il “mondo fuori” ad accoglierci: quello dove non si può che guardare lontano e provare a immaginare un altro futuro.

© Riproduzione riservata