Il Def definisce lo scenario macroeconomico atteso dal Governo per i prossimi tre anni. Si stima per quest’anno una crescita all’1 per cento, grazie anche alle misure che il Governo intende adottare, e all’1,5 e 1,3 nei due anni successivi. Previsioni corroborate dall’indice di fiducia di imprese e consumatori, e dal Pil cresciuto dell’1,8 per cento nel primo trimestre superiore all’1,3 dell’Eurozona. Il deflatore dei consumi è previsto al 5,7 per cento, per poi stabilizzarsi intorno al 2 nel 2025. Si vuole adottare una politica fiscale prudente con il deficit programmato che dal 4,5 per cento di quest’anno scende al 3 nel 2025. La spesa per interessi sale al 4,4 per cento del Pil, ma gradualmente si ridurrà. Lo spread dei Btp a 10 anni rimane stabile al di sotto dei 190 punti, nonostante gli incidenti in Parlamento, rispetto ai 250 al momento delle ultime elezioni e formazione del nuovo Governo. E le banche italiane sono ben capitalizzate e redditizie, immuni dalle ricadute delle crisi bancarie Usa e Credit Suisse.

Allora, perché Moody’s, un’agenzia di rating, e Goldman Sachs, una banca di investimento, hanno espresso giudizi negativi sul nostro debito pubblico? Prima di gridare al complotto dei poteri forti, sarebbe utile analizzare i dati: si scoprirebbe che non ci sono crisi finanziarie dietro l’angolo, ma tanti rischi per la sostenibilità del debito. Mentre l’attuale stabilità dello spread non implica aver scongiurato futuri aumenti perchè l’avversione al rischio degli investitori può cambiare repentinamente.

ll trend della domanda di titoli di stato evidenzia un primo rischio. A fine gennaio gli stranieri avevano ridotto di 67 miliardi lo stock del debito detenuto, rispetto all’anno precedente; banche, assicurazioni e fondi italiani di 5; mentre la Bce ne ha comperati per 31 e i risparmiatori si sono accollati il grosso degli acquisti, 67 miliardi. Ma la Bce azzererà quest’anno gli acquisti, gli stranieri smobilizzano, e diverse banche italiane, come vedremo, probabilmente dovranno vendere: c’è il rischio quindi che l’onere del finanziamento dello Stato ricada prevalentemente sulle spalle di risparmiatori proprio quando l’inflazione, riducendo il potere d’acquisto del loro reddito, incide sulla loro capacità di risparmiare. Sbagliato fare affidamento sull’ombrello della Bce (il programma TPI) per contenere lo spread perché si aprirebbe solo a crisi iniziata (molti stimano oltre i 300 punti). E comunque il TPI prevede la condizionalità.

Altro rischio che il DEF non considera è un rallentamento dell’economia, indotto dall’aumento dei tassi e contrazione della liquidità. Il mercato obbligazionario già sconta una brusca frenata tale da costringere la Bce a invertire la rotta sui tassi, poco dopo gli attesi aumenti di almeno 0,5 nelle prossime riunioni, che porterebbe al 3,5 per cento il tasso sui depositi presso la Banca Centrale. Così l’intera curva dei rendimenti sui titoli tedeschi è oggi inclinata negativamente con un tasso a 1 anno al 2,9 per cento, 2,7 a 2 anni, diminuendo fino al 2,3 a 10. Chiaro segno che per il mercato il rischio rallentamento è reale, che impatterebbe negativamente sui nostri conti pubblici.

Oggi, non c’è rischio di crisi bancarie, ma per preservare patrimonializzazione e redditività a fronte di tassi in aumento e contrazione della liquidità, le banche stanno già riducendo il rischio degli attivi, contraendo i prestiti alle imprese: dal luglio 2022, con il primo rialzo della Bce, a febbraio 2023, sono diminuiti di 35 miliardi e il loro costo è aumentato in media di 2,5 punti percentuali. Per far fronte alla stretta, le imprese hanno poi ritirato 60 miliardi di depositi, riducendo la liquidità delle banche, che nel secondo semestre dovranno anche rimborsare 328 miliardi di prestiti LTRTO alla Bce. Quello italiano è l’unico sistema bancario che non ha riserve in eccesso presso la Bce con cui farlo. Siccome le due maggiori, Intesa e Unicredit, hanno dichiarato di avere fondi in eccesso bastanti, tutte le altre dovranno vendere titoli di stato per rimborsare i prestiti, creando un problema in più per il Tesoro. Comunque vengano rimborsati i prestiti TLTRO, una contrazione complessiva del credito alle imprese è più che probabile; e l’impatto sulla crescita sottostimato.

Rischi e credibilità

Il previsto miglioramento dei conti pubblici sottostima inoltre l’impatto positivo dell’inflazione, che però è transitorio. Le aliquote tributarie, infatti, non sono indicizzate per cui l’inflazione aumenta il gettito (+8 per cento anno), ma non la spesa pubblica. Inoltre, migliora il rapporto tra deficit e Pil nominale che essendo calcolato a prezzi correnti, aumenta con l’inflazione. Come inevitabilmente andrà ad esaurirsi l’impatto positivo del Pnrr sugli investimenti. La lunga scadenza media del debito pubblico (7 anni) stabilizza l’onere da interessi, che però non è mai la causa immediata di una crisi; ma è la difficoltà a trovare nei momenti di crisi compratori sufficienti ad assorbire le nuove emissioni.

Questi gli elementi critici di breve. Ma dal DEF ne emergono anche di natura strutturale. Il primo, che ha avuto ampia risonanza, è la sostenibilità dei conti a fronte del rapido invecchiamento della popolazione. Anche con il sistema contributivo, le pensioni sono pagate con le imposte e i contributi di chi lavora, e se ci sono sempre meno lavoratori (a causa anche della bassa natalità) e più pensionati, il sistema diventa insostenibile. Dal DEF emerge come la crescita della produttività sia un ulteriore elemento critico per la stabilità. Nelle simulazioni, la spesa per pensioni cresce dal 16,1 del Pil nel 2025 fino al 17,3 nel 2035, per poi ritornare al 14,7 nel 2055, lo stesso livello del 2010. Stessa dinamica per la spesa complessiva, che sale dal 50,7 per cento del 2025 fino al massimo del 55, per poi ridursi. A lungo termine la stabilità sarebbe dunque assicurata ma dipende da un’ipotesi di crescita della produttività del lavoro all’1,5 per cento a partire dal 2035, e fino ad allora dello 0,4 in media, che è difficilmente credibile. Anche perché il DEF stima una crescita nulla quest’anno, per poi salire dello 0,4 nei successivi due grazie al Pnrr; e questo dopo un decennio di crescita nulla.

Un secondo elemento sono le garanzie statali, passate dal 3 per cento del Pil in media nel quinquennio pre Covid, a quasi il 16 per cento quest’anno, risultato di tutte le iniziative a sostegno di famiglie, occupazione, imprese e banche a fronte di pandemia e crisi energetica. Le garanzie non sono debito, né necessariamente lo diventeranno, ma se l’economia dovesse rallentare c’è il rischio che lo Stato debba mettere in qualche caso mano al portafoglio, con un impatto sui conti non indifferente.

Ma il rischio maggiore è che tutto questo avviene proprio quando l’Europa deve trovare una soluzione simultanea a tre problemi: ridefinire il Patto per riportare deficit e debiti nel limiti dei vecchi parametri del 3 e 60 per cento del Pil che, qualunque sarà l’accordo, imporrà vincoli alle nostre finanze pubbliche; sostenere con fondi pubblici gli investimenti necessari alla transizione ambientale per competere con americani e cinesi, con il rischio che l’onere finanziario ricada prevalentemente sui bilanci dei singoli Stati, che ci vedrebbe svantaggiati; e trovare un accordo sul prestatore di ultima istanza in una futura unione bancaria per evitare che la crisi di un istituto di uno Stato contagi l’intero sistema finanziario europeo. Gioverebbe al Paese se il Governo, invece di un atteggiamento conflittuale e oppositivo nei confronti di Bruxelles (no al Mes, rinegoziazione Pnrr, difesa dei balneari, esenzione dei biofuels) ne adottasse uno più propositivo e costruttivo, pur difendendo i propri interessi. Ne guadagnerebbero in credibilità, che sarebbe oltremodo utile qualora, come temo, si materializzassero i rischi a cui è esposto il nostro debito.

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