I commenti dei rappresentanti della maggioranza all’indignazione popolare per la reazione sproporzionata e violenta delle forze dell’ordine contro i giovanissimi manifestanti di Pisa e di Firenze meritano un’attenzione critica.

Pronunciate con l’intento di offrire una difesa d’ufficio delle forze dell’ordine, fanno loro un pessimo servizio. Un’opinione che ritorna suona così: la responsabilità di quanto accaduto è dei «cattivi maestri» (leggi, «la sinistra») che insegnano ai giovani a protestare nelle piazze. Quindi i minorenni picchiati a Pisa e Firenze non sapevano quel che stavano facendo.

Secondo Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera dei deputati, bisogna rieducarli. «Bisogna pensare a dei corsi di manifestazione per i giovani perché quelli che sono andati a manifestare a Pisa o a Firenze sono giovani che probabilmente erano alla loro prima manifestazione e magari spinti da "cattivi maestri” sono andati contro il cordone di polizia provocando una reazione sulla quale possiamo certamente discutere». 

I «cattivi maestri» devono essere sostituiti da quelli buoni. Quelli che, a quanto pare, non conoscono la Costituzione e pensano di educare i cittadini a non dissentire o a manifestare il dissenso in modo tale da «non provocare una reazione» da parte delle forze dell’ordine.

È un’osservazione a dir poco infelice, anche nei confronti delle forze dell’ordine. Dipinte come l’alter dei giovani chiassosi e come se la sicurezza si misurasse dalla capacità dei cittadini di non «provocare» i tutori dell’ordine. Che vengono dipinti come cani doberman addestrati ad attaccare, a reagire pavlovianamente a chi li provoca.

Ma questa non è un’immagine dignitosa delle forze dell’ordine di un paese democratico. La rappresentazione dei giovani che scendono in strada e delle forze dell’ordine che li attendono pronti a reagire alle loro provocazioni stride con la Costituzione, che riconosce tra l’altro il diritto di manifestare pacificamente nei luoghi aperti senza autorizzazioni. E rende un cattivo servizio alle libertà civili di tutti.

La domanda che deve stare a cuore ai difensori d’ufficio delle forze dell’ordine è quella posta da Norberto Bobbio in Il futuro della democrazia: quando il dissenso viene giudicato legittimo? Vivere in uno stato democratico non significa vivere in uno stato non conflittuale: significa vivere in uno stato in cui la conflittualità cambia nei modi e nelle forme (definite dalla legge secondo i principi costituzionali).

In «un regime basato sul consenso non imposto dall’alto, una qualche forma di dissenso è inevitabile, e solo dove il dissenso è libero di manifestarsi il consenso è reale, e solo dove il consenso è reale il sistema può dirsi giustamente democratico». Dissenso e consenso sono in relazione diretta e permanentemente.

Ciò significa che non esiste un’idea di consenso democratico se il dissenso è preventivamente considerato un problema che, non potendo essere evitato, viene contrastato con la forza. Il dissenso non può essere inteso come una forma illegittima da sopportare e da neutralizzare. L’idea che i cittadini debbano essere educati a «non provocare una reazione» da parte delle forze dell’ordine si scontra con la vita civile di uno stato democratico. 

Se esiste un «criterio discriminante» tra democrazia e dispotismo, scrive Bobbio, questo è «la maggiore o minore quantità di spazio riservato al dissenso». Le forze dell’ordine fanno parte della dialettica democratica, non come guardiani ringhiosi addestrati a non essere provocati.

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