Il vertice informale dei capi di stato e di governo di Versailles dell’11 e 12 marzo scorsi, su cui il presidente di turno, Emmanuel Macron, puntava per affermare la sua leadership in Europa, è stato complessivamente un flop. Il Consiglio era stato originariamente convocato per fare il punto sui progressi della riforma della governance europea, ma l’agenda è stata come è ovvio sconvolta dalla guerra in Ucraina e dalla nuova crisi energetica. I leader europei avevano sul tavolo tre dossier importanti. Il primo era la richiesta ucraina di un processo di adesione accelerato all’Unione europea. Come era immaginabile la porta è stata, sia pur garbatamente, chiusa.

Nel comunicato finale il Consiglio ha solo promesso di procedere speditamente, ma specificando che questo avverrà con le procedure previste dai trattati, che non prevedono scorciatoie.

I legami con l’Ucraina saranno rafforzati in altro modo; a titolo di esempio, la Commissione ha annunciato mercoledì scorso il raccordo delle reti per la fornitura elettrica moldava e ucraina con quella dell’Ue.

Si tratta di un’operazione complessa portata a termine a tempo di record, che oltre ad evitare blackout generalizzati in questa fase, segnala l’intenzione di andare verso una maggiore integrazione economica.

Le forniture russe

Il secondo dossier è quello dell’indipendenza dalle forniture russe di idrocarburi e di un possibile embargo. Su questo, anche qui senza sorprese, non si è andati oltre a un mandato alla Commissione europea per l’elaborazione di un piano che porti alla sostituzione degli idrocarburi russi con fonti alternative, sostituzione che comunque non sarà completa prima del 2027.

Non sorprendentemente, è la Germania (fortemente dipendente dal gas russo) ad aver opposto la maggior resistenza all’embargo, nonostante alcuni studi (tra cui uno di accademici tedeschi) mostrino che i costi sarebbero ingenti ma gestibili.

Next Generation Eu

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Infine, la Francia e altri paesi tra cui l’Italia premevano per un nuovo Next Generation Eu, uno strumento finanziato da debito comune, che in questo caso sarebbe servito per finanziare il rilancio delle spese militari e gestire la crisi energetica.

Il presidente Macron non si aspettava certo che il Consiglio varasse lo strumento, ma che almeno ci fosse un accordo di principio e un mandato chiaro alla Commissione per elaborare una proposta.

Non se ne è fatto nulla per l’opposizione dei paesi detti frugali e della Germania; ricordiamo che quest’ultima era invece stata ispiratrice e motore del programma Next Generation, lo strumento più innovativo introdotto durante la pandemia.

Il riarmo non è prioritario

Chi scrive è più che scettico sull’utilità e soprattutto sull’opportunità di lanciarsi in una corsa al riarmo. Non è chiaro cosa sarebbe cambiato nel quadro dell’invasione dell’Ucraina se i paesi europei avessero avuto risorse militari più ingenti, visto che da un lato si è fin qui saggiamente evitato di lanciarsi in un’escalation, e che dall’altro la deterrenza non sarebbe comunque maggiore di quella data oggi dalla forza militare della Nato.

Inoltre, è facile prevedere che è solo questione di tempo prima che si levino voci a sostenere che tutto non si può fare e che, visti gli ingenti investimenti militari, occorrerà tagliare su altre voci di bilancio come il welfare o addirittura la transizione ecologica.

Malgrado la drammaticità della situazione attuale, è difficile considerare il riarmo prioritario rispetto alla necessità di assicurare la sostenibilità ambientale e sociale delle nostre economie.

Tuttavia, nonostante lo scetticismo sulle finalità del Fondo proposto dalla Francia, l’insuccesso di Macron, che non è riuscito nemmeno a inserirlo nel programma di lavoro della Commissione, non è una buona notizia.

La nuova crisi era un buon test per vedere se si potesse immaginare una generalizzazione del “metodo Next Generation”: far fronte a sfide comuni con risorse anch’esse comuni riconoscendo che, sia pure rigorosamente inquadrata, la solidarietà tra stati membri è il modo più efficace per far fronte a shock globali che hanno effetti asimmetrici (nel caso della pandemia, l’impatto sanitario e l’effetto dei lockdown; nel caso della guerra, la diversa dipendenza dal gas e la distribuzione disomogenea dei rifugiati).

L’inerzia dei governi

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Il mancato accordo su una politica di investimento in beni pubblici comuni è ancora più problematico alla luce degli sviluppi della politica monetaria. Il diario europeo avrà modo di tornare su cause e rimedi possibili dell’inflazione e sulle recenti decisioni della Bce, che pur non frenando esplicitamente ha segnalato l’intenzione di levare il piede dall’acceleratore.

Tuttavia, è evidente che con l’inizio della fine della pandemia siamo entrati in una nuova fase in cui il coordinamento tra politiche di bilancio e politica monetaria sarà molto più difficile, dovendo queste tenere insieme gli obiettivi di sostenere la crescita e la transizione ecologica, assorbire gli squilibri settoriali, assicurare la sostenibilità del debito, evitare la divergenza tra le economie dell’Ue, garantire la sostenibilità sociale e ridurre le disuguaglianze.

È ovvio per quasi tutti, ne abbiamo già parlato a più riprese, che non è nemmeno lontanamente immaginabile che tutti questi obiettivi possano essere raggiunti senza mettere al centro della scena politiche di bilancio attive e coordinate.

E proprio il Next Generation Eu rappresenta un esempio innovativo e riuscito di coordinamento e azione comune. Il fatto che di fronte ad una crisi geopolitica ed economica come quella causata dall’invasione dell’Ucraina, e proprio mentre la Bce si appresta a fare un passo indietro, i soliti noti siano riusciti a fermare sul nascere un’iniziativa comune, non fa ben sperare per i cantieri in corso (in particolare, quello fondamentale sulla riforma del patto di stabilità).

Abbiamo già assistito all’inerzia autolesionista dei governi europei di fronte ad una crisi di sistema. Era il 2010-2012, con le politiche di austerità generalizzate anche a paesi che non ne avevano bisogno; e fu necessario che Mario Draghi e la Bce, tirati per i capelli,  ci togliessero le castagne dal fuoco con il celebre «whatever it takes». Allora si trattava “solo” di una crisi finanziaria e, sia pure meno efficace di quanto sarebbe stata un’espansione di bilancio, l’intervento della Bce fu sufficiente ad evitare l’implosione dell’euro.

Se la policrisi di oggi arrivasse fino ad un punto di rottura (una crisi del debito? Una penuria di beni o fonti energetiche? Una catastrofe climatica? Una crisi migratoria?), nemmeno la Bce potrebbe supplire all’inerzia di paesi europei che procedono in ordine sparso.

Insomma, molti di noi erano stati positivamente sorpresi dalla rapidità e dall’efficacia della reazione alla pandemia, sperando che in futuro la concertazione e il bene comune potessero ispirare le politiche europee accanto ai legittimi interessi nazionali.

L’insuccesso di Versailles, paradossalmente proprio quando a ragione viene lodata l’unità europea di fronte all’invasione dell’Ucraina, è un brutto segnale; rimane solo da sperare che si tratti di un incidente di percorso.

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