Il desiderio delle centinaia di uomini, donne, bambini che si trovano intrappolati al confine tra la Bielorussia e la Polonia è ora ridotto al più elementare dei bisogni: restare vivi in un mondo che li vuole morti.

Per i paesi da cui provengono – soprattutto l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan – sono persone in eccesso. Per quelli in cui vorrebbero entrare, i paesi alla frontiera orientale dell’Unione europea, sono nemici da combattere. Per i trafficanti che ne organizzano il viaggio, il valore della loro vita si esaurisce con il pagamento della quota di trasbordo. Per gli Stati autocratici oltre i confini, sono armi biologiche nella guerra contro l’Ue.  

E Bruxelles? Le alte cariche dell’Unione condannano la “strumentalizzazione dei migranti” da parte del regime di Lukashenko, ma sposano la linea di Varsavia e delle repubbliche baltiche: rafforzare le barriere e la loro militarizzazione.

Se una popolazione aliena oggi visitasse i confini d’Europa, difficilmente riuscirebbe a comprendere la fibrillazione causata da alcune migliaia di persone inermi, ammassate al freddo e nel fango in Bielorussia, nei boschi lungo la rotta balcanica, su imbarcazioni di fortuna nel Mediterraneo. Non lo capirebbe, perché la chiusura dell’Unione Europea nella sua fortezza sempre più impenetrabile ha poco a che vedere con i numeri.

La guerra a migranti e rifugiati, combattuta ad intensità crescente, ha una motivazione tutta politica ed è il frutto dell’egemonia discorsiva che i partiti sovranisti sono oggi in grado di esercitare sul tema, a causa della debolezza dei difensori dei “valori europei” dinnanzi alla sfida migratoria. La paura di una crescita della destra nativista e nazionalista sta inducendo tutte le forze politiche ad adottarne l’agenda.

A maggio di quest’anno, in uno discorso tenuto all’Istituto universitario europeo di Firenze, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha richiamato don Milani, le sue parole “I care”, come espressione di attenzione e responsabilità per gli altri da trasformare in motto dell’Ue durante e dopo la pandemia: «I care, we care, questa credo che sia la più importante lezione che possiamo imparare da questa crisi».

Però una politica che voglia mettere al centro la “cura”, cioè la risposta ai bisogni vitali delle persone, non può evitare la domanda: la cura per chi? Chi sono le persone verso cui le istituzioni si assumono una responsabilità? Includono i “non nativi” che chiedono protezione da guerre, fame, disastri climatici? Oppure è da seguire la linea della Polonia, che ha reso legali i respingimenti dei richiedenti asilo?

Dalla pandemia sembrano essere nate due Europe. L’una che vanta il successo di una risposta comune alla crisi, manifestazione di un’“anima”, una volontà politica che ambisce a una maggiore integrazione. L’altra, la sua ombra, rinserrata nello sciovinismo del benessere, spaventata dalla disperazione che preme ai suoi confini, incapace di tradurre i suoi “valori” in impegno d’accoglienza. In questa Europa del filo spinato i contrari a un’Unione forte, i sovranisti, hanno già vinto.

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