Il messaggio ufficiale di Palazzo Chigi è coerente e rassicurante. Ma nella manovra non c’è una strategia di sviluppo, solo una gestione difensiva dell’esistente
Con l’approvazione della legge di Bilancio, accompagnata da polemiche e retromarce, il quadro che emerge è meno caotico di quanto sia apparso nelle settimane precedenti, ma non per questo più strategico. Le risorse per Industria 5.0 e Zes (Zona economica speciale) sono state alla fine rifinanziate, le coperture sono state trovate, i conti tengono e i vincoli europei vengono rispettati. Il messaggio ufficiale di Palazzo Chigi è coerente e rassicurante. Ma proprio questa sequenza racconta il nodo di fondo della manovra: non una strategia di sviluppo, bensì una gestione difensiva dell’esistente.
Gli aggiustamenti dell’ultimo momento, le misure annunciate e poi corrette, le coperture costruite per evitare buchi più che per orientare il futuro indicano una politica economica guidata dal consenso immediato e dalla riduzione del rischio politico, non da una visione di medio periodo. Le risorse arrivano, ma arrivano tardi, in modo frammentato, spesso come risposta a pressioni contingenti più che come parte di un disegno coerente. Il paradosso della legislatura è evidente.
Il governo Meloni dispone di una maggioranza solida, con un’opposizione debole e frammentata. Per anni si è sostenuto che una maggioranza compatta fosse la condizione necessaria per avviare riforme strutturali; oggi accade l’opposto. La stabilità politica non viene utilizzata per imprimere una direzione, ma per proteggere l’esistente, evitare scelte con costi immediati e rinviare sistematicamente quelle con benefici nel tempo. Il rischio è una legislatura consumata nella gestione ordinaria.
Il problema non è la mancanza di diagnosi. Da tempo esiste una convergenza ampia – dalla Commissione europea all’OCSE, fino alla Banca d’Italia – sul carattere strutturale del declino italiano. La produttività ristagna, il capitale umano cresce lentamente, l’innovazione fatica a diffondersi, la pubblica amministrazione resta un freno. Il nodo non è sapere che cosa non funziona, ma perché, pur sapendolo, la politica non agisce.
Lo scontro oggi non è più tra destra e sinistra, né tra maggioranza e opposizione. È uno scontro tra presente e futuro. Da un lato c’è chi vive, o crede di vivere, protetto dall’esistente: rendite, trasferimenti, assetti consolidati. Dall’altro chi dipende dalla crescita futura per avere opportunità, reddito, mobilità sociale. È una frattura che attraversa i partiti e rende sempre più sterile il confronto politico tradizionale.
Il governo Meloni è emblematico di questa dinamica. Le condizioni per un riaggiustamento strutturale c’erano tutte: consenso elettorale, stabilità istituzionale, una maggioranza compatta e le risorse del Pnrr. Era il momento per intervenire sulla pubblica amministrazione, investire nel capitale umano, semplificare le procedure, aprire alla concorrenza settori protetti, dare una direzione credibile alla politica industriale. Nulla di tutto questo è avvenuto in modo sistematico.
I conti tengono, ma non grazie a riforme: tengono perché si evitano decisioni con costi immediati e benefici differiti. A spiegare questa inerzia contribuisce anche l’invecchiamento della popolazione. In una società anziana il presente pesa più del futuro, la protezione più del rischio, la continuità più della trasformazione. Gli elettori più anziani votano di più e premiano politiche di continuità, mentre le riforme che richiedono sacrifici oggi per benefici domani diventano politicamente poco convenienti. Si crea così un conflitto intergenerazionale silenzioso: i giovani sono pochi, politicamente deboli, meno organizzati.
Esiste un “Partito del Pil”, composto da imprese dinamiche, lavoratori qualificati, giovani e amministrazioni efficienti, che sa che senza crescita non c’è futuro. Ma è una coalizione fragile, incapace di trasformare una diagnosi condivisa in una domanda politica vincolante. Molti giovani, soprattutto i più qualificati, votano contro il declino lasciando il paese. Nel frattempo il mondo è cambiato rapidamente. Geopolitica, competizione tecnologica, intelligenza artificiale e ritorno delle politiche industriali hanno rimesso al centro il tema della strategia economica. Molti paesi stanno ridefinendo priorità e investimenti. L’Italia, invece, continua ad amministrare l’esistente, confidando nella tenuta dei conti come surrogato di una visione.
La nuova anomalia italiana non è più l’instabilità politica, ma l’uso difensivo della stabilità. Senza una domanda sociale orientata al futuro, senza una coalizione pro-crescita politicamente rilevante, senza leadership disposte a pagare un prezzo nel breve periodo, il riaggiustamento strutturale resta tecnicamente possibile ma politicamente impraticabile. Il declino continua, lento e silenzioso, perché il presente continua a vincere sul futuro.
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