La guerra a Gaza continua senza reali prospettive politiche. La prima fase del giudizio dell’Aja lascia la situazione com’è, anche se Israele dovrà fare molta più attenzione da ora in poi. La guerra non può terminare per decisione giuridica, ma solo per iniziativa politica.

Tuttavia siamo ancora nel gorgo delle passioni istintive, ben lontani dalla lucidità necessaria per decidere. Lo dice con chiarezza Etgar Keret, uno degli scrittori israeliani più amati nel mondo: «Tutto quello che è successo nei primi due mesi di questa crisi è stato istintivo: ci hanno attaccato e abbiamo risposto. Loro hanno ucciso noi e noi uccidiamo loro. E poi? Dove finisce? Qual è il piano? Non lo sappiamo…».

E non lo sanno nemmeno i giudici dell’Aja che non se la sono sentita di porre un limite al diritto di autodifesa che è un principio giuridico internazionale globalmente accettato e stabilito (solo l’aggressione immotivata non lo è).

Resta il punto dell’ennesima guerra israelo-palestinese, in particolare contro Hamas: non c’è un piano (ma tale assenza non può essere dichiarata illegale da un punto di vista della legge internazionale).

Prosegue Keret che ciò è comprensibile per un movimento terrorista come Hamas ma non per uno stato democratico. Di Gaza nessuno sa cosa farne, non c’è progetto e quindi non c’è futuro. Nemmeno nel gabinetto di guerra hanno trovato un accordo, e stanno litigando come pazzi.

Sappiamo solo che il premier Benjamin Netanyahu utilizza la guerra a oltranza per restare in sella e che i deputati del Likud non gli tolgono la fiducia per non perdere il posto, mentre gli altri generali non si parlano nemmeno. Una situazione paradossale per Israele. I familiari dei rapiti che hanno occupato la Knesset (il parlamento di Israele) urlavano scandalizzati da tale immobilismo politico: «Avete fatto cadere un governo per una banale questione di cibo kosher e non lo fate per salvare la vita ai vostri concittadini?! Vergogna!».

La situazione si sta avvelenando e il paese è sempre più diviso: alla lunga si tratta di un’altra vittoria per Hamas. La guerra senza fine ha il potere di annebbiare le menti: mentre si lotta si perde lucidità e direzione di marcia.

Soprattutto si perde il contatto con la realtà: ciò a cui assistiamo sembra dimostrare che gli israeliani non comprendono più i palestinesi né la loro psicologia. I manifestanti israeliani che bloccano i camion di aiuti per Gaza sarebbero un’ulteriore forma di pressione, oltre a quella militare.

Pensano: più li strangoliamo e prima ridaranno i rapiti e si arrenderanno. Ma costoro non capiscono che la resilienza palestinese è a tutta prova forgiata da decenni di umiliazioni e restrizioni di ogni tipo. Lo dicono innumerevoli autorità israeliane, come Ami Ayalon, ex capo dell’intelligence, autore di Fuoco amico.

Tale mancanza di cognizione (che gli esperti chiamerebbero empatica) si trasforma in reazioni istintive che portano a errori strategici: più si fa pressione e più dall’altra parte si rafforza la determinazione a non cedere.

È la storia di tutti i movimenti di liberazione, patriottici, nazionalisti, indipendentisti e così via (che usino il terrorismo o no): violenza produce violenza. È in atto uno scontro di passioni: da una parte Israele pensa che la sola via di sopravvivenza è distruggere il proprio vicino; dall’altra si reagisce allo stesso modo ma nel segno opposto. Direbbe Keret: «E poi?».

È il dopo che manca in tutto questo, al di là della contesa sulle ragioni e sui torti che facilmente risulterebbe a somma zero. Come si può andare avanti così? Le proposte di sistemazione dell’area avanzate da americani (smilitarizzazione) o dai sauditi (una forza di interposizione) vengono respinte una dopo l’altra dal governo israeliano.

La guerra sembra proteggere un status quo solo apparente. I parenti dei rapiti continuano le loro manifestazioni saldandosi alle proteste anti Netanyahu di prima del pogrom del 7 ottobre. Qualche segno di rabbia palestinese contro Hamas spunta qua e là, per ora solo per la libertà di spostarsi dentro la Striscia.

Intanto la guerra rischia di allargarsi a tutta la regione e al mar Rosso. Ci sarebbe bisogno di rimettersi a ragionare sul futuro: finché dura il fuoco della guerra e delle passioni non ci sarà nulla di diverso da ciò che abbiamo visto in questi anni.

Non si può rifare sempre la stessa cosa e pensare che il risultato possa essere diverso: avremo sempre lo stesso caos, assieme a una situazione pericolosa e in bilico, insicura per tutti. È stato così per decenni e lo sarà di nuovo se non si cambia decisamente rotta.

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