Già nelle prime righe, in apertura di Una battaglia persa, Svetlana Aleksievic, dichiara di avere intorno delle “centinaia di voci” che sono sempre con lei. Questo accade fin da quando era piccola e abitava in campagna.
Di chi sono queste voci? Le prime sono le voci delle donne che stanche, verso sera, dopo aver lavorato tutto il giorno, si sedevano sulle panche fuori dalle case e la attiravano come «una calamita».

Nonostante appena finita la guerra di uomini non ne fossero più restati, queste donne parlavano più che altro d’amore. «Gli anni passavano, ma loro non smettevano di aspettarli: “Senza braccia, senza gambe, basta che torni: me lo porto in spalla”».

Ma queste voci, che alla fine formano un coro, ma un coro che mantiene sempre infinite e differenti modulazioni, non sono soltanto voci, sono anche storie: storie di guerra, storie di Chernobyl, storie di Afghanistan, storie di morti, eccetera.

gni essere umano è una voce e al tempo stesso è una storia, ma tutte queste voci-storie sono anche delle esili performance fatte soltanto di veloci ed effimere percussioni dell’aria, destinate a esistenze istantanee che si illuminano un attimo prima di scomparire nel continuo divenire del mondo; è questo che preoccupa Svetlana Aleksievic: « Di sé Flaubert diceva di essere un “uomo-penna”. Di me potrei dire che sono una “donna-orecchio”. Quando cammino per strada e afferro parole, frasi, esclamazioni, penso a quanti romanzi scompaiono senza lasciare traccia. Svaniti nel tempo. Dissolti nelle tenebre».

Romanzi che scompaiono

Di che cosa sono fatti questi romanzi che scompaiono? Sono fatti di parlato.

« C’è tutta una parte della vita umana, quella del parlato, che non riusciamo a portare nella letteratura. Non l’abbiamo ancora apprezzata come si dovrebbe, non ce ne siamo fatti stupire o incantare. Io, invece, ne sono ammaliata e prigioniera».

È così, con questo sentimento delle voci, che sono l’espressione di migliaia di anime singolari, che per esempio Aleksievic, attraverso migliaia di nastri di magnetofono, granello dopo granello, briciola dopo briciola, cerca di mettere insieme «la storia di un socialismo “casalingo”, “interiore”. Il modo in cui aveva casa nel cuore della gente».

Ma farsi largo nell’anima di una persona è difficile anche perché quest’anima in genere è insudiciata «dalle superstizioni di un’epoca, da inganni e pregiudizi. Da tv e giornali».

Aleksievic raccoglie la quotidianità dei sentimenti, dei pensieri e delle parole allo scopo di raccogliere la vita del suo tempo ritrovando una specie di storia dell’anima e del suo quotidiano.

Mette insieme quello che la grande storia trascura.

«Io mi occupo della storia trascurata» ci dice. In questo trascurato può starci dentro un po’ di tutto.

Per esempio, al tempo al tempo dell’invasione russa dell’Afghanistan, alcuni soldati russi parlottano tra di loro e uno dice: «Al frigorifero sono arrivati altri morti. C’è una puzza come di cinghiale stantio». 

Oppure, quando Aleksievic si reca all’ospedale per i civili afghani per portare regali ai bambini: «Mi si avvicina una giovane donna con un bambino in braccio; vuole darmi qualcosa … Do un pupazzetto al figlio, che lo prende coi denti. “Perché fa così?” mi stupisco. La giovane afghana scopre la copertina: il piccolo non ha le braccia. “I tuoi russi. Bomba”. Qualcuno mi ha sorretto, mentre svenivo».

Ecco, potremmo dire che in questo interessantissimo Una battaglia persa, da Adelphi, Svetlana Aleksievic riesce a mostrarci come questo suo sentimento per le singole voci e le singole vite si sia trasformato nel tempo in un fruttuoso metodo di ricerca.

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