Nonostante il mantra sull’orgoglio italiano (ovvero del governo di destra), pochi sembrano saper dire quale sia l’idea di paese pubblicizzata da Giorgia Meloni & co.

Sappiamo con certezza e abbondante chiarezza chi la destra detesta, per nome e cognome. Sappiamo chi sono i nemici giurati, contro i quali il governo si è “speso” in questo primo anno con zelo: i poveri, i minorenni che marinano la scuola, i partecipanti ai rave, i salariati senza contratto. Gente che per il governo non vale nulla, anche perché sembra che non vada a votare. Che sia lasciata a sé stessa non comporta alcun rischio.

La propaganda la si fa sulla scena internazionale: accordi con capi di stato contro gli scafisti e per recludere i migranti irregolari. La si fa ad Atreju, con un’accoglienza principesca all’uomo «più ricco del pianeta», un Guinness dei primati; sei ricco, dunque sei dei nostri. I fatti contano più delle parole.

Non è vero che Meloni non dice quale sia la sua idea di paese: lo dice ogni volta che può e lo mostra ogni volta che decide. Ha scritto sui social Carlo Calenda che in «un grande paese quando la presidente del Consiglio interviene in un evento pubblico, parla della sanità, della scuola, dei salari, degli investimenti, non attacca un’influencer. Spiega invece la sua visione dell’Italia. Questa politica sempre e solo contro conduce al nulla».

Purtroppo per Calenda e per noi, questa politica da influencer «conduce» a cose concrete, quelle di cui non è necessario parlare e che vengono messe in atto. La politica sulla sanità e sulla scuola parla attraverso la decurtazione degli investimenti: le classi pollaio e la penuria di insegnanti, i pronto soccorso intasati, l’umiliazione dei medici, forse nella speranza che prendano la strada delle cliniche private convenzionate (con le quali il governo è generoso).

La determinazione della destra è chiara. Il problema non sta qui. Sta dall’altra parte della siepe, oltre la quale c’è il buio, per parafrasare il titolo di un vecchio bel film americano.

L’opposizione

Nello spazio dell’opposizione non succede molto e se succede non è, ancora, per il meglio. Come nel 1922-1924, anche oggi la frammentazione e i mille distinguo dei leader grandi e piccoli sono parte della forza di cui gode il governo.

Neppure il rischio di una riforma regressiva della Costituzione che vuole spostare lo scettro dal parlamento a Palazzo Chigi sembra capace di unire.

Il leader dei Cinque stelle non se ne preoccupa tanto, e non disdegna un “premier forte”, un vago dire che lascia aperte tutte le porte. Giuseppe Conte, che pure diede un’ottima prova di sé nei momenti più bui della pandemia, oggi sembra preoccupato più della sua immagine che della forza dell’opposizione. Le cui anime non sanno trovare l’orgoglio di essere una e plurima: unirsi per creare un’alternativa al governo, nella specificità di ciascuna parte.

Se solo Pd e Cinque stelle riuscissero a dedicare l’anno che verrà a questo obiettivo, ci sarebbe uno spiraglio di luce oltre la siepe. Senza bisogno di fare appello a grandi progetti unitari, che non è necessario che ci siano: sarebbe sufficiente che i leader dei due partiti avvertissero la responsabilità del loro ruolo.

Una responsabilità non solo verso il nostro paese, ma anche verso l’Europa, che fu istituita non per soddisfare gli orgogli dei nazionalisti, ma per scongiurarli. Un grande paese che fu tra i fondatori non solo della Ue, ma dell’idea di federazione sovranazionale come condizione di civiltà e di pace, meriterebbe una leadership europeista più determinata e forte.

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