Un altro naufragio, ancora centinaia di morti. Tutti e 600 (o più) con una faccia, un nome, una storia molto tormentata e difficile - 100 di loro molto breve, perché nati da poco - e delle speranze.

Ancora un naufragio che doveva essere e poteva essere evitato.

Si discute di colpe: guardia costiera greca inadempiente o in alcuni casi criminale, Frontex indifferente o complice dei criminali. Ma quelle centinaia di persone, bambini donne e uomini sono morti per colpa nostra. Se partono è perché noi abbiamo tolto loro la speranza di vivere decentemente, o spesso anche di sopravvivere. Se non arrivano è perché noi permettiamo che chi governa nei nostri Paesi e in Europa utilizzi lo sterminio come arma di difesa contro una millantata “sostituzione etnica”.

Stiamo difendendo, utilizzando l’arma dello sterminio, dei privilegi (non dei diritti, quelli si chiamano così quando sono di tutti) che loro non avevano. E li abbiamo lasciati crepare in mare. Sì, noi, proprio noi che forse non facciamo nulla ma certamente non abbastanza: non tiriamo pietre, non ci incateniamo, non andiamo per mare a salvare vite, non litighiamo al bar quando sentiamo cazzate populiste, non pretendiamo che nei giornali dove lavoriamo si denunci ogni giorno, si racconti ogni giorno questo sterminio.

Comunque quello che facciamo non è abbastanza, e le nostre indignazioni, il nostro sentirci impotenti, il nostro sdegno di fronte a queste stragi sono intrise dell’ipocrisia di chi, in fondo, ai propri privilegi non vuole rinunciare.

Se vogliamo che il Mediterraneo smetta di essere il cimitero più grande della storia, se vogliamo smettere di essere assassini o complici di assassini, dobbiamo e possiamo fare molto. Non restare umani perché non lo siamo più. Dobbiamo tornare ad esserlo.

© Riproduzione riservata