Il dolore vive in un terreno sacro: lo spazio dove ciascuno lo porta con sé. Possiamo dibattere sulle cause che lo hanno inflitto, cercare di limitarlo, di capirlo. Ma nessuno, tantomeno la politica o la filosofia, possono raccontarci il lamento di una madre che vede il figlio affogare a pochi metri dalla salvezza. Sarà più facile incasellare la sofferenza nella statistica, farla diventare un numero, in cui presto si trasformeranno persino i morti di Cutro. E invece è un “grido silenzioso”, come ci insegna Simone Weil, un sordo balbettio che invoca una supplica muta: «Non farmi del male».

Ed è da quel grido che dobbiamo cominciare a riflettere su cosa significhi per noi oggi il dolore. Perché è qualcosa che tutti noi sentiamo di conoscere intimamente: il contatto radicale con l’ingiustizia è un’esperienza che accomuna ogni essere umano. Uno spazio condiviso che diventa empatia per coloro che soffrono.

Universalismo impersonale

È con questa verità che deve fare i conti la politica e la società: scavando in fondo alla tragedia passiamo da questo dolore impersonale e neutrale, a quello unico e crudo delle vittime, scoprendo che hanno storie, cultura e valori propri. Ma cosa accade se tali identità non corrispondono alle nostre aspettative o ai nostri assunti di civiltà? È sufficiente questo per far venir meno l’universalità del dolore? Se così fosse, nascerebbero tristi “classifiche dell’empatia” con i primi posti occupati da chi proviene da costrutti sociali simili ai nostri e gli ultimi da chi scappa da mondi a noi incomprensibili.

La nostra società vive da tempo questa contraddizione: da un lato vogliamo proteggere l’autenticità delle identità, preservandone cultura, costumi e tradizioni, dall’altro auspichiamo un universalismo di valori, al di là di ogni specificità. Il confrontarsi con la sofferenza rende questa dicotomia soltanto più evidente.

Per usare una metafora del filosofo Slavoj Žižek, in un’epoca di consumismo cerchiamo prodotti senza lati negativi: caffè senza caffeina, birra senza alcol, salsicce senza grassi… Così non abbiamo problemi ad abbracciare l’altro, purché privo di quelle diversità che ci appaiono oscure. Il profugo può essere portatore dell’universalismo impersonale del dolore, ma solo finché con esso non presenta tutti quei lati particolari di identità, cultura e valori che non ci piacciono.

Una visione che unisce

Esiste però un filo che unisce i due estremi di questo paradosso: non esistono modi di vita autentici o universali, bensì culture che sono tutte parimenti attraversate da un radicale antagonismo al dolore. Un contrasto che si manifesta quando dismettiamo la supplica “non farci del male” e scegliamo di resistere affinché non ce ne venga fatto.

Se consideriamo la vita delle persone che si affidano al mare come una sfida a un destino che sembrava segnato, allora non importa più parlare del loro modo di vivere, ma piuttosto chiederci e chiedergli quale sia la loro lotta.

L’universalismo non è una fratellanza utopica tra modi di vita diversi e nemmeno la solidarietà incondizionata, o l’empatia istintiva. L’universalismo è una domanda: come possiamo unire le nostre diverse lotte in uno sforzo di protesta comune contro il dolore dell’ingiustizia?

Non è la formula per una soluzione pratica, ma un invito a condividere una visione verso di essa. Provare a salvare chi muore mentre insegue una speranza continuerà a essere responsabilità della politica e della società. Ma se le lotte di chi soffre diventeranno parte del nostro impegno, allora sì che il dolore per ogni loro sconfitta sarà legittimamente anche il nostro.

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