Una dirigente della Disney ha detto che d’ora in poi il 50 per cento dei personaggi dei loro film sarà Lgbt o apparterrà a minoranze etniche. Naturalmente i cinici hanno già commentato che questa scelta è stata fatta per moda e dunque per vendere il prodotto. In ultima analisi, per massimizzare i rendimenti degli azionisti, quindi non per motivi etici.

Questo genere di cinismo però è sempre un po’ facile: il mercato, se gli dai tempo, ha la capacità di assegnare un valore a qualsiasi cosa, anche all’ideale più alto, trasformandolo in rendimento. Perciò il mercato – nella sua sublime indifferenza –  darà sempre ragione ai cinici.

Non esiste decisione d’azienda che venga presa senza la speranza che si traduca in un risultato. I manager (non scarsi) fanno questo lavoro. E non è un caso che la notizia sia stata data con un numero (“il 50 per cento”): dà l’idea di un obiettivo, ha il suono della praticità e del controllo, della pianificazione. Se tutto questo non ci piace dovremmo fare la rivoluzione: è sul piano del giudizio al mercato, alla sua capacità di farsi misura di tutto, che dovrebbe articolarsi la nostra critica.

La diversità e l’infanzia

Archiviate le polemiche sterili, occupiamoci invece dei bambini che guardano i film. Parlare dei bambini come insieme indistinto è sempre strano. Fra i due e i dieci anni (per dire) accade di tutto. E chi ha memoria dell’infanzia lo sa, in quegli anni si attraversano interi mondi interiori, si costruiscono e si distruggono civiltà in fondo al cuore.

Noi adulti, che ci muoviamo lenti nella vischiosità degli anni, salvo poi notare di colpo che il tempo è passato, non abbiamo nulla a che fare col mondo mutevole, rapido ed epico dei bambini.

Possiamo dire, senza paura di sbagliare troppo, che per i bambini l’idea dell’inclusione, della diversità e della minoranza è in realtà molto comprensibile. Questo non perché conoscano la vita e il mondo e dunque siano in grado di capire tutte le implicazioni esistenziali e politiche della questione, ma banalmente perché il problema del sentirsi uguali e diversi è il loro pane quotidiano.

Mi spingo a dire che la diversità è fra gli argomenti più centrali dell’infanzia. Lo è a partire da quando iniziano a uscire di casa e a confrontarsi coscientemente con gli altri, cosa che fino a un attimo prima non hanno mai fatto. E gli altri possono essere qualsiasi cosa.

Nostra figlia va a giocare a casa di un’amica, tornerà dicendo quanto quella casa è diversa dalla nostra. Farà considerazioni romantiche sui giocattoli che ha trovato. Noterà come i genitori dell’amica lasciano fare cose pericolose che noi non permettiamo. Affronterà insomma il problema della differenza: la nostra famiglia, fino a quel momento misura di tutto, le sembrerà piena di errori. Sarà attratta da modi di vita che le sembrano opposti e magari solo per questo migliori. Oppure vedrà negli altri cose che non le piacciono. L’amica fa merenda con cibi disgustosi. I genitori dell’amica vietano i videogiochi.

Tutto questo va moltiplicato per il numero di amiche e amici e conoscenti e compagni di scuola che via via nostra figlia incontrerà. Nasceranno molte domande. Sono uguale o diversa? È meglio cercare di essere come tutti? Ma cosa significa essere come tutti? Nostra figlia attraverserà dilemmi, li affronterà per conto proprio. Noi crederemo di intervenire, di sapere, ma il grosso avverrà nel suo cuore.

Eliminare un peso inutile

Tenendo conto di questo spirito infantile in tumulto, l’idea di una maggiore diversità nei personaggi dei cartoni sembra semplice e positiva, suona come l’eliminazione di un peso inutile. Non è tanto il fatto che un personaggio possa avere un’identità di genere in evoluzione, ma è la moltiplicazione delle possibilità, la cancellazione delle impossibilità.

La sensazione che non dobbiamo essere qualcosa, ma possiamo essere qualcosa. Qualcuno dirà che le storie ne risentiranno, “eh ma allora i classici”. Non è così. La bontà delle storie dipende solo dall’esistenza di qualcuno che le sappia raccontare. Una storia nasce come fremito, diventa un movimento, e mentre viene scritta attraversa molte identità. La natura stessa del narrare è sfuggente, poco inquadrabile.

Ho spiegato a mia figlia l’idea della Disney, le ho chiesto cosa ne pensa. Mi ha guardato come se le avessi chiesto cosa pensa del fatto che le carote sono arancioni. Mi ha detto: «Non possiamo continuare a ignorare certe cose». A maggio fa dieci anni, è grande, ormai. Come ogni persona della sua età ha già attraversato mondi interiori e costruito e distrutto intere civiltà in fondo al cuore.

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