Una delle grandi tele napoleoniche cui sembra impossibile non ritrovarsi davanti, nell’ordinatissimo dedalo spaesante del Louvre di Parigi, è l’Ufficiale della guardia imperiale a cavallo alla carica di Théodore Géricault. È uno di quei quadri francesi dell’Ottocento che vengono sempre fuori quando si parla di carisma maschile, di solenne virilità da battaglia, tipo l’ancora più famoso Napoleone che attraversa le Alpi di Jacques-Louis David.

A me però, col culone del cavallo e le più modeste terga del cavaliere illuminati da una luce caravaggesca – e persino echeggiati, formalmente, dalla curva della spada (ma che fa? taglia la coda al destriero? va in retromarcia per parcheggiarlo?) – quel bellicoso Géricault fa sempre l’effetto che mi fanno anche le foto propagandistiche di Vladimir Putin a cavallo: mi viene da ridere, mi pare una buffonata.

Non che il cavalleresco in sé, da Boiardo ai cavalieri dello zodiaco, non mi appassioni; anzi. Ma al baffuto francese col cappellone da scemo che guarda in basso nelle sale del Louvre mi sembra sia da preferire lo spettacolare rifacimento pittorico che ne ha tratto Kehinde Wiley nel 2007, sostituendogli un rilassato ma spavaldo ragazzo nero il quale, a differenza di lui, guarda in alto, ed è più diffusamente illuminato – sebbene possa ben permettersi, lui sì, di essere dipinto da dietro.

Il quadro che lo ritrae si intitola Ufficiale degli ussari ed è esposto a Detroit, in Michigan. Il cavallo è lo stesso di Géricault, la spada è la stessa, la sella, assurdamente in pelliccia di leopardo, è la stessa. L’uomo, però, è assai diverso – e non solo per il colore della pelle. Sia teso che sbracato, indossa una serie di cose da maschi che contribuiscono alla sua identità di razza e di genere almeno quanto la carnagione e i muscoli evidenti: un paio di jeans larghi, che calano dietro, scarpe Timberland con la suola di gomma, una setosa giacca viola con colorata fodera interna, aperta sul torace e sfilata da una manica.

E soprattutto, al centro della composizione, una immacolata canottiera bianca, di quelle di una volta e di ogni giorno, di quelle che sono sempre (o forse non sono mai state) di moda. Eccolo, il carisma maschile cavalleresco: un ussaro urbano, serio e ironico, in canottiera.

Un connotato razzista

Mi domando se, sotto alla sua abbottonatissima casacca militare, anche l’ussaro originale di Géricault indossasse una canottiera. Di certo suole indossarla, sotto al completo, Barack Obama, di cui Kehinde Wiley ha dipinto l’inquietante, misterioso ritratto per la National Portrait Gallery di Washington.

Sappiamo che Obama è un devoto della canottiera perché a un certo punto, durante la sua prima corsa presidenziale nel 2008, è sceso dall’aereo della campagna elettorale in un’afosissima Virginia estiva e, togliendosi la giacca in un improvviso bagno di sudore, è stato fotografato con la sagoma di quel capo intimo, segreto, che emergeva dalla camicia madida.

Immagino che la stessa cosa accada di continuo a centinaia di celeberrimi personaggi, politici e non. Ma la canottiera di Obama ha acceso interessi giornalistici per la stessa questione, al crocevia tra razza e maschilità, che fa dell’ussaro di Wiley un’icona sia familiare che disorientante, adatta magari all’ufficio di un orgoglioso magnate dell’hip-hop – in cui in effetti appare esposta nella serie tv Empire.

La canottiera di un afroamericano evoca immagini diverse, suggerite dal pregiudizio o dal feticismo, rispetto alla canottiera di un uomo caucasico. Disegnata per non essere vista, senza maniche, aderente e sottile, con l’ampia scollatura così facile da nascondere anche sbottonando un colletto, la canottiera è infatti esibita, nell’immaginario razzista, solo dai maschi allergici all’appropriato guardaroba della gente pudica.

Se l’uomo dabbene, normale e standard (cioè bianco e connazionale, di classe agiata), la porta, non la si vede mai – e se si vede, non la si nota. Un tempo era lo xenofobo marchio distintivo dell’italiano migrante: sempre sudato, mai in tiro, un po’ mafioso, pronto a tramutare qualsiasi spazio, pubblico o privato, nel tinello di casa sua, togliendosi la camicia.

Oggi, negli Stati Uniti, fa parte dell’iconografia dei latinoamericani, paradossalmente dipinti come pigri e, al contempo, accaldati dai loro lavori di fatica – la canottiera risponde a entrambi gli stereotipi: capo da divano e da manovalanza. Da sempre, in ogni caso, è legata all’identità nera, che però si è riappropriata della sua immagine attraverso alta moda e urban style, rap e sport, trasfigurandone il significato al punto che, dagli anni Novanta almeno, anche i bianchi la vogliono indossare coi pantaloni calati, dimenticando che la si associava ai corpi degli schiavi, dei carcerati col sopra della tuta legato in vita per sollevare pesi, dei gangster di basso profilo. Che la si chiamava (e che ancora la chiama così chi non si preoccupa di usare un linguaggio offensivo) wife beater, cioè letteralmente “picchiatore della moglie”.

Metti la canottiera!

Noialtri millennial italiani siamo cresciuti col bimbo dello Zecchino D’Oro che, quando il coro dell’Antoniano gli intimava «Metti la canottiera», rispondeva «No!». «Questa è l’epoca di Rambo», spiegava quel bimbo per nulla impertinente, «lui non ha la canottiera, / tutt’al più la mette nera / oppure blu».

A dire la verità Rambo, manesco cafoncione militare disobbediente, di vaga discendenza italiana, nei film sta sempre in canottiera (in effetti nera), ma non è questo il punto. Il punto è che è strano, per chi è abituato a pensare alla canottiera come a una rassicurante imposizione normativa e omologante a cui ribellarsi, scoprire che altrove la norma è non portarla – o almeno, non esibirla.

Forse però lo stereotipo del maschio violento in casa, che in canottiera mena la moglie, non è davvero estraneo all’immagine dello sfigato che ancora ascolta i consigli della mamma, e dalla mamma si lascia comprare la maglia della salute al mercato perché altrimenti prende freddo.

Nell’immaginario italiano, e in quello straniero sulla cultura italiana, la canottiera ha anche a che fare con la dipendenza fatalmente tossica da un femminile accudente. In Mamma Roma di Pasolini, nella scena ispirata al quattrocentesco Lamento sul Cristo morto di Andrea Mantegna, il giovane Ettore sta incatenato a un letto di tavola, in carcere, con indosso una canottiera, irraggiungibile dalla tremebonda madre che dà il titolo al suo film.

Fosse cresciuto, invece di morire di febbre in galera, quel ragazzo di vita sarebbe certo diventato un wife beater anche lui, come il giovane gangster Chris Moltisanti dei Sopranos che, in canottiera con la catenina in vista, stringe il collo della fidanzata Adriana con minaccioso affetto mentre le spiega di essere un soldato.

Proletaria e fluida

Pare che questo infausto termine, wife beater, sia stato ispirato da Marlon Brando, che nella versione cinematografica di Un tram che si chiama desiderio stupra la cognata, malmena la moglie e urla come una bestia in una canottiera rotta e slabbrata, esercitando l’orrido fascino dell’uomo violento.

Il repertorio dei maschi in canotta tuttavia (al di là di quelle banali da canottaggio, o da basket, o di quelle meno connotate con le maniche) ci consente, mi sembra, di liberare quest’utile e comodo indumento dalle cariche simboliche di violenza, razzismo e pregiudizio che ha accumulato.

Basta guardare agli eroi della classe lavoratrice: da Fantozzi (per la simpatia) a Bruce Springsteen (per il carisma) a Paul Newman in La lunga estate calda. O a Blanco, ragazzetto punk rap di provincia che, quando non è nudo o vestito da Pierpaolo Piccioli di Valentino per Sanremo, sta sempre in canottiera bianca.

C’è una rivendicazione popolare nell’esibizione della canottiera come bandiera non del maschio manesco o mammone, pigro o affaticato, ma del maschio semplice, che lavora per vivere, che non soffoca negli strati delle divise da ussaro o da signore perbene. La canottiera d’altronde è l’unico indumento da maschio tradizionale con una scollatura, con delle sottili spalline: cose da femmina, usualmente, pensate appunto per lo sguardo dell’altro sesso.

Evaso dal confine stretto dell’intimo, questo capo iper-maschile ma sorprendentemente fluido offre infatti la possibilità di mostrare il proprio corpo, di sedurre, in modo inedito per chi cresce nella tossica convinzione di dover essere sedotto.

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