Nei giorni scorsi, varie associazioni femminili hanno rilevato che lo schema del nuovo codice dei contratti pubblici non prevede la certificazione della parità di genere (cosiddetto bollino rosa). Si tratta di uno strumento finalizzato a promuovere politiche aziendali che perseguano una effettiva eguaglianza tra uomini e donne in ambito lavorativo.

È necessario capire come la cancellazione di tale strumento si stia concretizzando in punto di diritto, ciò anche al fine di comprendere su quali profili servirebbe intervenire, prima che la riforma entri in vigore.

La certificazione della parità di genere

La certificazione della parità di genere - inserita nel Codice per le pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006, art. 46-bis) nel 2021 (l. n. 162) - è un’attestazione relativa alle politiche e alle misure concrete adottate dai datori di lavoro per «ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». Un Dpcm del 29 aprile 2022, entrato in vigore nel luglio dello stesso anno, ha disposto che il rilascio della certificazione avvenga in conformità alla prassi di riferimento UNI/PdR 125 da parte di organismi di valutazione accreditati. Tale prassi consente di misurare l’efficacia delle azioni intraprese per creare un ambiente di lavoro inclusivo, mediante un insieme di indicatori suddivisi in 6 aree (cultura e strategia, governance, processi HR, opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, equità remunerativa per genere, tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro).

Il ricorso alla certificazione da parte delle imprese è incentivato da una serie di meccanismi di premialità. Innanzitutto, il cosiddetto decreto semplificazioni (d.l. n. 77/2021, art. 47) obbliga le stazioni appaltanti a indicare nei bandi di gara, negli avvisi e negli inviti relativi al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) «i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell'offerta in relazione al possesso da parte delle aziende private (…) della certificazione della parità di genere».

Inoltre, nel 2022, la legge contenente misure urgenti per l'attuazione del Pnrr (l. n. 36, art. 34) ha modificato alcune norme del codice dei contratti pubblici disponendo che le stazioni appaltanti indichino «il maggiore punteggio» da attribuire alle imprese che adottino politiche mirate alla parità di genere, comprovata dall’apposita certificazione rilasciata ai sensi della norma tecnica UNI/PdR 125 (art. 95, c. 13). La stessa legge ha pure indicato tale certificazione tra le condizioni per ottenere la riduzione del 30 per cento dell’importo della garanzia provvisoria, nei contratti di servizi e forniture (art. 93, c.7). Il possesso della certificazione consente, infine, un esonero dal versamento di una percentuale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro – in misura pari all'1 per cento, e fino a un massimo di 50mila euro annui - ai sensi del decreto del Ministero del Lavoro adottato lo scorso 20 ottobre, di concerto con i ministri per le Pari Opportunità e dell’Economia.

Dunque, in sintesi, attualmente il ricorso alla certificazione della parità di genere è favorito da una serie di incentivi: consente di beneficiare di un punteggio maggiore nella partecipazione ad appalti, della diminuzione della garanzia da prestare nelle procedure di gara, di un esonero da contributi previdenziali.

Il nuovo codice degli appalti

Lo schema di decreto legislativo contenente la riforma del codice degli appalti - approvato nel dicembre scorso dal Consiglio dei Ministri in sede preliminare, esercitando la relativa delega (d.lgs. n. 78/2022) – è attualmente all’esame di Camera e Senato. Il nuovo codice si applicherà ai procedimenti avviati a decorrere dal 1° aprile 2023, mentre dal 1° luglio 2023 è prevista l’abrogazione del codice precedente (d.lgs. n. 50/2016) e l’applicazione di quello nuovo anche a tutti i procedimenti in corso.

Il nuovo codice segna un passo indietro per il riconoscimento della parità di genere. Ciò emerge, in primo luogo, dalla norma ai sensi della quale le stazioni appaltanti «possono» - e non “devono”, come sancito per i contratti relativi al Pnrr - prevedere nei bandi, negli avvisi e negli inviti «meccanismi e strumenti idonei a realizzare pari opportunità generazionali, di genere e di inclusione lavorativa» (art. 61, c. 2). In altri termini, l’attenzione a colmare i divari esistenti è meramente facoltativa. Inoltre, l’inserimento nei bandi di gara di requisiti premiali volti a promuovere la parità di genere, che è incondizionato nel codice attuale, nel codice nuovo viene invece subordinato a diverse condizioni, quali l’oggetto del contratto, la tipologia del progetto ecc. (Allegato II.3). E, soprattutto, a differenza di quanto previsto dal codice vigente, ai fini dell’ottenimento di un maggior punteggio, il nuovo codice non prevede che le politiche per la parità di genere siano attestate secondo i rigorosi parametri definiti dall’UNI/PdR 125. Parimenti, sono slegati da tali parametri gli impegni che devono essere assunti dagli operatori economici al fine di garantire pari opportunità di genere, oltre che generazionali e di inclusione lavorativa per persone con disabilità o svantaggiate (art. 102, c. 1, lett. c). Insomma, manca uno specifico riferimento a criteri rigorosi per il contrasto alle diseguaglianze tra uomini e donne.

L’attestazione della parità di genere redatta secondo la prassi di riferimento è prevista solo nella disposizione in base alla quale la garanzia a corredo dell’offerta è ridotta «fino ad un importo massimo del 20 per cento» quando l’operatore economico possegga uno o più delle certificazioni indicate dall’allegato II.13: tra di esse compare anche quella rilasciata ai sensi dell’UNI/PdR 125 (art. 106, c. 8). Il beneficio della riduzione della garanzia è del 30 per cento in base al codice vigente, quindi un 10 per cento in più rispetto a quanto sarà con il nuovo codice. Dunque, le aziende che hanno investito sulle politiche di genere in vista dei vantaggi che ne sarebbero derivati, con la norma di prossima emanazione se li vedranno diminuire.

Missione 5 del Pnrr

A fronte degli ampi divari di genere nel mercato del lavoro, nel Pnrr il legislatore ha previsto, all’interno della missione 5 (“inclusione e coesione”), anche la definizione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere, destinandovi 10 milioni di euro. Il sistema persegue lo scopo di incentivare l’adozione di policy idonee a ridurre il gap di genere in alcune dimensioni che sfavoriscono le donne nel lavoro (opportunità di crescita, parità salariale, politiche di gestione delle differenze di genere, tutela della maternità). I meccanismi premiali connessi alla certificazione sono volti a far sì che vi facciano ricorso soprattutto imprese di medie, piccole e micro-dimensioni. Secondo quanto previsto nel Pnrr, entro il 2026 le aziende certificate rispetto alla parità di genere dovranno essere almeno 800. Al momento, a seguito dell’implementazione del sistema, sono circa 100 le imprese che hanno ottenuto tale certificazione.

Com’è palese, il venire meno, nel nuovo codice degli appalti, dei meccanismi incentivanti legati alla certificazione della parità di genere determinerà un minore ricorso alla stessa, non solo pregiudicando il raggiungimento degli obiettivi legati al Pnrr, ma anche segnando un passo indietro nelle politiche a favore delle donne. Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, a fronte delle critiche per la mancanza della certificazione in discorso nel codice degli appalti, ha affermato che essa costringe le imprese a più «burocrazia». Quindi, per il ministro la promozione del lavoro femminile è questione di burocrazia. Se il governo reputa di avere una considerazione diversa da quella di Salvini con riguardo a strumenti di empowerment delle donne, è ancora in tempo per intervenire sulle relative norme del nuovo codice degli appalti.

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