La vicenda relativa alla messa a gara delle concessioni balneari sembrava vicina alla conclusione dopo che, nel novembre 2021, l’adunanza plenaria del Consiglio di stato aveva escluso ogni possibilità di proroga oltre il 31 dicembre 2023 e il governo di Mario Draghi aveva recepito tale scadenza in una legge.

Invece, il governo di Giorgia Meloni ha deciso una proroga ulteriore, spostando la scadenza al 31 dicembre 2024. Forse tale decisione – dall’indubbio valore politico, ma che sul piano giuridico pare insensata – è stata presa contando su alcune sentenze che, nelle prossime settimane, potrebbero riaprire la partita delle concessioni balneari. Ma il costo per i cittadini rischia comunque di essere molto alto.

I fatti

Nel 2006, con la direttiva Bolkestein, volta a facilitare e garantire la creazione di un libero mercato dei servizi in ambito europeo, le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali avrebbero dovuto essere messe a gara.

Nel 2008 la Commissione europea avviò una prima procedura d’infrazione contro l’Italia, che solo nel 2010 recepì la direttiva, impegnandosi a riordinare il settore e, nel mentre, disponendo una proroga. La procedura d’infrazione fu archiviata. Nel 2016, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (Ue) stabilì che la proroga automatica delle concessioni marittime, «in assenza di qualsiasi procedura di selezione», era in contrasto con la Bolkestein. Ciò nonostante, l’Italia non ha mai applicato la direttiva, continuando con le proroghe, da ultimo nel 2018 fino al 2033.

Nel dicembre 2020, la Commissione europea ha avviato una nuova procedura di infrazione.

Nel novembre 2021, il Consiglio di stato (Cds), in adunanza plenaria, con due sentenze gemelle (nn. 17 e 18) ha deciso che la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative è in contrasto con il diritto dell’Ue.

Le norme nazionali che la dispongono, e che in futuro dovessero ancora disporla, andranno considerate «tamquam non esset», cioè come se non esistessero, e quindi non dovranno essere applicate né dai giudici né da organi amministrativi. Tuttavia, al fine di «evitare il significativo impatto socio-economico» di una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere, il Cds ha stabilito che esse restino efficaci sino al 31 dicembre 2023 e che, oltre tale data, «anche in assenza di una disciplina legislativa, cessino di produrre effetti».

Il termine fissato dal Cds è stato recepito nella legge annuale sulla concorrenza (l. n. 118/2022), con cui il governo Draghi ha prorogato le concessioni al 31 dicembre 2023, prevedendo tuttavia che tale termine possa essere derogato con atto motivato, non oltre il 31 dicembre 2024, se la conclusione della procedura selettiva sia impedita da «ragioni oggettive», connesse a un contenzioso o a difficoltà di espletare la procedura stessa. Il Governo avrebbe dovuto adottare entro sei mesi un decreto legislativo per la definizione di un «sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni pubblici» – in sostanza, una mappatura informatica delle concessioni stesse – nonché uno o più decreti legislativi volti a riordinare e semplificare la disciplina in materia.

Ma con alcuni emendamenti al decreto “Milleproroghe”, qualche giorno fa, il governo di Giorgia Meloni è intervenuto di nuovo sulla materia. In contrasto rispetto alle determinazioni del Cds, stata disposta un'ulteriore proroga di un anno, quindi fino al 31 dicembre 2024, data che può slittare fino al 31 dicembre 2025 per i Comuni che si trovino nelle difficoltà oggettive già previste dal governo Draghi.

Contemporaneamente è stato spostato di cinque mesi, da fine febbraio a fine luglio, il termine per la conclusione della mappatura; inoltre, fino all'adozione del decreto contenente i principi delle nuove gare, i Comuni non potranno procedere ai bandi.

La strategia di Meloni

LAPRESSE

Ha destato perplessità la disinvoltura con cui il governo – noncurante della procedura di infrazione da parte dell’Ue e delle pronunce dell’Adunanza plenaria del Consiglio di stato – ha disposto la proroga delle concessioni.

È probabile che Meloni conti, da un lato, sui tempi lunghi della conclusione della citata procedura dell’Ue; dall’altro lato, sull’esito di alcuni giudizi pendenti dinanzi alle Sezioni unite della Corte di cassazione, aventi ad oggetto le citate sentenze del Cds. Giudizi che potrebbero incidere sulla proroga delle concessioni in senso favorevole rispetto alla decisione dell’esecutivo.

Il primo parte da un ricorso del marzo 2022 da parte del sindacato italiano balneari-Confcommercio; il secondo da un ricorso del dicembre 2022 da parte di Confindustria nautica. In particolare, i ricorsi rilevano che il Cds avrebbe esercitato un’attività di produzione normativa che spetta esclusivamente al parlamento, operando al di fuori dei binari costituzionali, e quindi della separazione dei poteri.

Pertanto, le decisioni del Cds sarebbero viziate da eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore. In altre parole, i giudici avrebbero agito come se le scelte e le valutazioni politiche del parlamento potessero essere sostituite da quelle di una sentenza.

Se le sezioni unite, valutando i ricorsi contro tali decisioni, applicheranno il principio ribadito anche in una recente sentenza (n. 4591/2023) – si configura il suddetto eccesso di potere quando il Cds crea delle norme, non limitandosi a interpretare quelle esistenti – le sentenze dell’Adunanza plenaria sulle concessioni marittime potrebbero non superare il vaglio di legittimità.

Inoltre, è pendente anche un giudizio presso la Corte di Giustizia dell’Ue, alla quale il Tar di Lecce ha rimesso la decisione su una serie di questioni riguardanti l’applicabilità della direttiva Bolkestein. Anche questa decisione potrebbe operare in senso favorevole alla proroga disposta dal governo.

I costi della proroga delle concessioni

Qualunque sia l’esito dei giudizi pendenti, il governo dovrebbe considerare i costi che la proroga delle concessioni balneari comporterà per i cittadini, in termini soldi pubblici sottratti ad impieghi utili per i cittadini stessi. 

Costi che attengono sia ai canoni molto bassi pagati allo stato dagli attuali concessionari, e che invece aumenterebbero con la messa a gara; sia all’importo della sanzione che l’Ue potrebbe comminare all’Italia, a seguito della procedura di infrazione già avviata. Se il governo non si conformerà alla legislazione dell’Ue, nonostante i richiami della Commissione, quest’ultima potrà ricorrere alla Corte di giustizia.

E se la Corte riterrà che l’Italia abbia violato il diritto dell’Unione, potrà imporre sanzioni pecuniarie calcolate in base all’importanza delle norme violate, agli effetti determinati dalla violazione, agli impatti delle sanzioni in relazione alla capacità del paese di pagarle.

La mancata messa a gara delle concessioni graverà sui cittadini anche per un profilo ulteriore: per fruire dei servizi balneari sulle spiagge, essi continueranno a pagare prezzi più cari a causa dell’assenza di concorrenza che, com’è noto, si traduce nella competizione fra operatori economici per offrire i prodotti migliori al minor prezzo.

Ma le continue proroghe delle concessioni rappresentano un costo per il paese anche per un altro verso. Come evidenziato dalla Commissione Ue nella lettera di costituzione in mora dell’Italia, esse scoraggiano «gli investimenti in un settore chiave per l’economia italiana», e ciò impedisce «la modernizzazione di questa parte importante del settore turistico italiano. La modernizzazione è ulteriormente ostacolata dal fatto che la legislazione italiana rende di fatto impossibile l’ingresso sul mercato di nuovi ed innovatori fornitori di servizi».

Insomma, come accadde anni fa per le quote latte, tutti gli italiani pagheranno un prezzo molto alto per il privilegio concesso a una singola categoria politicamente protetta: un tempo gli allevatori padani, oggi i gestori degli stabilimenti balneari. Sarebbe bene che il governo ne rendesse conto con trasparenza.

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