Con la destra che sale sui trattori delle proteste, in Germania, in Francia e ora anche in Italia, si fa sempre più chiaro che sul terreno della transizione ecologica si giocherà una delle principali partite politiche degli anni a venire. Da una parte, pungolati dall’ecoattivismo radicale, i partiti e movimenti sostenitori del Green Deal e degli accordi internazionali per la riduzione delle emissioni; dall’altra, le forze vicine ai blocchi di interesse ostili, ma anche sensibili ai movimenti profondi della società, allo scontento provocato da misure che impattano su stili di vita, consumi, condizioni materiali.

Pur avendo una lunga storia, la lotta ambientalista non ha mai rappresentato un vero terreno di polarizzazione. Intorno alla difesa dell’ambiente, cioè, non si sono generate in passato divisioni profonde, identitarie, assetti valoriali alternativi e visioni della società capaci di suscitare orientamenti di voto stabili, analogamente a quanto avvenuto intorno a «fratture» classiche come quelle tra capitale e lavoro, centro e periferie o città e campagna.

Quando i trattori sono scesi nelle strade, lamentando una normativa troppo vincolante e la fine degli sgravi sul gasolio, è sembrato il ritorno di una contrapposizione antica: contadini contro ceti urbani, con i primi contrari e i secondi favorevoli alla decarbonizzazione. Il quadro però è forse più complesso. Perché la politicizzazione della questione climatica (si pensi a Matteo Salvini) traccia una sottile linea verde che unisce fronti diversi, come le proteste dell’agroindustria e quelle contro le restrizioni sulla circolazione dei mezzi inquinanti, o contro i limiti di velocità nel centro delle città.

Sfruttare le ostilità

La destra si mostra abile, cioè, nello sfruttare la diffidenza o ostilità diffusa tra i gruppi che più rischiano di pagare il conto della transizione, più restii a innovare o in condizione di maggiore svantaggio sociale e occupazionale.

La sfida ambientale e climatica si candida ad alimentare nuove polarizzazioni se, appunto, vedrà i favorevoli e contrari alla transizione posizionarsi lungo la frattura sociale che divide i vincitori e i perdenti delle grandi trasformazioni nei sistemi produttivi e negli stili di vita.

I partiti che cavalcano la protesta non prospettano una transizione «giusta», non mirano a costruire alleanze tra lotte per il clima e per il lavoro. Piuttosto, negano il pericolo e prospettano il conforto di modelli di vita tradizionali.

La petronostalgia

È quella che la politologa Cara Daggett ha chiamato «petronostalgia»: un investimento emozionale rivolto al passato e fortemente venato di rimandi a un ordine di genere e sociale tradizionale, in cui il desiderio di recuperare modelli familiari e di vita di metà Novecento si salda al rimpianto per un tempo caratterizzato dal consumo spensierato di energia fossile a basso costo. Così il negazionismo climatico si salda alla proposta identitaria “Dio, patria e famiglia”.

Di contro, nella visione degli ecoattivisti è ben presente il bisogno di combinare le battaglie per l’ambiente e quelle contro le diseguaglianze. Il concetto di “giustizia climatica” unisce la lotta al cambiamento climatico con obiettivi di giustizia sociale.

Solo un’agenda “green” che non perda di vista le persone può essere messa al riparo dai rischi della polarizzazione, evitando che gli interessi particolari abbiano la meglio su quelli generali, o le preoccupazioni per la fine del mese su quelle per la fine del mondo. E questa è la sfida per la politica futura, in particolare per una sinistra del futuro.

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