Il vento che soffia sul libro deposto sulla bara di Joseph Ratzinger, il papa passato alla storia per le sue dimissioni dieci anni fa, non aveva nulla di quello drammatico e grandioso che concluse nella stessa piazza San Pietro i funerali di Giovanni Paolo II nel 2005. Il vento del 2005, con l’ondeggiare delle tonache rosse dei cardinali, era una cesura, tra il prima e il dopo. Un vento dello Spirito. Si apriva anche per la chiesa la camminata nel deserto che avrebbe scosso tutte le altre istituzioni in questi due primi decenni del nuovo secolo. Venti anni, nelle società occidentali, di meccanismi inceppati, palazzi assediati, sistemi politici, economici e sociali frantumati, leadership fragili e cadenti.

Il debole vento dei funerali di Benedetto XVI in San Pietro dei primi giorni del 2023 ci restituisce questo orizzonte sfocato e immobile, paralizzato nel tentativo di portare la storia in avanti: dalla piazza cuore della cristianità al Campidoglio di Washington che non riesce a eleggere il suo speaker se non dopo una serie infinita di votazioni contro una minoranza di blocco al parlamento di Brasilia assediato, fino ad arrivare alle sponde di casa. La Tunisia che dodici anni fa incarnò la speranza delle primavere arabe e oggi si candida a essere una nuova Libia, il cuore dell'Europa, dove la guerra in Ucraina sta per compiere un anno.

Riconoscere l’avversario

In comune, tra Vaticano, Washington e Brasilia, c’è il mancato riconoscimento dell’avversario, la regola base della democrazia, non una forma ma una sostanza, che si fa largo perfino nella chiesa cattolica, tra chi ha ricevuto la missione di tramandare il credo degli apostoli di Cristo tra le genti.

Nel tempo lugubre del nichilismo e della volontà di annientamento che ha spinto dodici mesi fa di questi tempi Vladimir Putin a decidere l’invasione dell’Ucraina. La palude in cui siamo precipitati.

È la palude definitiva di cui scrisse Giorgio Manganelli nel suo ultimo romanzo del 1990, il più visionario: «Rammento una città sontuosa, edifici irti di pinnacoli, grovigli di strade sottili, subitanee piazze; su una di queste s’affaccia una casa dalle stanze anguste, certamente una casa illustre, sulle pareti della quale erano disegnati stemmi, motti, ora nella memoria, risibili e sinistri; giacché quel che ricordo è una folla che, di notte, gremiva la piazza davanti all’ingresso – un ingresso elaboratamente ornato da belve allegoriche, devotamente araldiche – e urlava la mia infamia». «Ho memoria oscura, sempre più logora col passare degli anni, di ciò che mi ha condotto in questo luogo deserto che mi è diventato patria», aggiungeva Manganelli.

Un luogo deserto è diventato patria. Manganelli raccontava così in quel romanzo metafisico di più di trent’anni fa della beffa fatale e finale che attende i conquistatori nel deserto, nella palude, arrivare all'obiettivo desiderato e scoprire che esso è vuoto.

«Quell’uomo solo potrà conquistare la città, ma che senso avrà mai questa impresa? Crede forse che questa città sia posta in un luogo strategico, così da dare accesso, o negarlo, a ulteriori conquiste? In verità, non v’è nulla alla nostre spalle, e chi avrà conquistato questa povera urbe, non troverà, oltre a questa, che il vuoto; non già il deserto che fa sperare che oltre vi sia qualcosa di meritevole di essere vissuto, ma il vuoto, una delle tante forme del niente, neanche la più lussuosa e divertente».

Navigare a vista

È questa la trappola in cui si infilano i sovranisti di ogni latitudine. Prima predicano la necessità di uscire dal miraggio della globalizzazione, che vedono come contraria alla natura dell’uomo, richiamano le radici e i confini, e poi si chiudono in una frontiera troppo stretta, soffocante.

Così come il mito dell’apertura indefinita del mondo globale ci ha consegnato a un presente di deglobalizzazione, di filiere cortissime, di alleanze difensive, di castelli e ponti levatoi innalzati qui e là, per difendersi dal mondo grande e terribile.

È il tratto distintivo della politica di inizio 2023. La navigazione a vista. La mancanza di progetti di lungo periodo. Non ce l’hanno, in Italia e nel resto d’Europa e dell’occidente, i partiti sovranisti che provano la svolta post populista, cercano di trasformarsi in conservatori, con l’imperativo di conservare, prima di tutto, lo spazio di potere occupato: è la precoce parabola di Giorgia Meloni.

Non ce l’hanno le forze già progressiste, i democratici che in Italia sono chiamati nelle prossime settimane a scegliere tra l’ordinaria e ordinata amministrazione del declino e lo spazio di un campo nuovo tutto da individuare e ancora indefinito: è la chiave della corsa congressuale del Pd tra Stefano Bonaccini e Elly Schlein.

Non ce l’hanno neppure i movimenti dell’ambiente e della lotta contro il cambiamento climatico, perché i gesti di Ultima generazione sono segnati dalla frustrazione per il mancato ascolto, o peggio per l’accoglienza paternalista, che hanno ricevuto i ragazzi e le ragazze negli ultimi anni. Gesti di disobbedienza civile, ma anche di rabbia, di angoscia, di disperazione, di fronte alla difficoltà di incidere nelle sedi dove si decide davvero, dove si fa politica.

Più vulnerabili

Tutti siamo più vulnerabili. È questa la parola centrale del lungo intervento che segue, scritto da Gino Mazzoli, un vero manifesto politico, quello che è mancato in questi mesi di dibattito sterile e autoreferenziale e che i candidati e le candidate alla segreteria del Pd, ma anche gli attivisti e le attiviste di Ultima generazione farebbero bene a leggere e a imparare a memoria.

Il trenta per cento di società vulnerabile è più che una questione economica o sociale, perché le vulnerabilità sono culturali, morali, esistenziali, sono le ferite invisibili cui sono abbandonate le famiglie e i singoli, bisogna leggere l'ultimo romanzo di Daniele Mencarelli Fame d’aria (Mondadori) per capirlo una volta di più. Sono quello che siamo, quel che resta di noi, dopo un trauma. Un trauma individuale o collettivo. In ogni caso, un trauma destinato a essere rivissuto perché non compreso e non riconosciuto.

La vita sociale, scrive Mazzoli, è un intreccio tra «una scena manifesta, pubblica (dove politica, mass media, religione ed economia dettano direzioni, linguaggi e simboli)» e una scena privata meno visibile (familiare, amicale, quotidiana) «dove nel faccia a faccia ravvicinato avvengono i processi che costruiscono senso e fiducia tra le persone».

Tra le due scene ci sono sempre stati mediatori (corpi intermedi: partiti, sindacati, associazioni) con la funzione di trasportare le ragioni della scena privata sulla scena pubblica e di rendere assimilabile, attraverso grandi narrazioni, la scena pubblica nella scena privata.

Il fatto che questi mediatori siano saltati ha reso più povera la scena pubblica, dove la politica è chiamata a malapena ad amministrare l'esistente, a inseguire i social o gli aumenti dei prezzi della benzina e leadership fortissime e vincenti mostrano il fiato corto dopo pochissime settimane di governo.

E ha abbandonato a sé stessa la scena privata, dove convivono grandi solidarietà ignorate dai media e dalla politica con la disperazione che a volte assume il carattere della violenza contro se stessi e gli altri e nella maggior parte dei casi il ritiro silenzioso nella depressione.

Le due scene, prive di collante, sono più fragili, sono vulnerabili. La vulnerabilità riproduce altra vulnerabilità. La mancata risposta, anzi, il mancato riconoscimento delle vulnerabilità private, le solitudini, le casualità e le difficoltà delle vite quotidiane che sono ignorate dagli operatori politici e mediatici nazionali, affidate a un pugno di amministratori locali, operatori del sociale, medici, insegnanti, rende vulnerabile la scena pubblica, popolata sul palcoscenico da comparse e non da grandi attori, di fronte a un teatro vuoto, spento.

Non solo palude

Eppure l’Italia e l’Europa non sono soltanto palude. Il pericolo del deserto, reale e non soltanto metaforico, è avvertito dai movimenti di ultima generazione. Altri ce ne sono. Dalla grande tempesta che investe i vertici della chiesa mondiale può nascere una nuova idea di popolo, di comunità di vivere civile tra loro connesse in rapporto con le istituzioni della politica, il volto rinnovato del cattolicesimo democratico del Novecento.

Manca all’appello la sinistra, la cultura politica più in difficoltà con la sua tradizione e con il suo avvenire, schiacciata sul presente, senza un passato che non sia nostalgico e senza un futuro che non sia nebuloso. Ricucire scena pubblica e scena privata è il primo passo per riconoscere le vulnerabilità, restituire respiro alle democrazie che hanno fame d’aria, fuori dal luogo deserto diventato patria che ci ostiniamo a chiamare politica.

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