«La politica dovrebbe essere l’arte di trovare ciò che è possibile fare insieme, non la scelta tra giusto e sbagliato», scriveva Sartre. Siamo andati ben oltre: ormai tendiamo ad accordare il nostro consenso ad un’offerta politica non in base a valori etici, ma come se questa fosse un prodotto sugli scaffali. Ne proviamo una e, se non ci piace, cambieremo marca alle prossime elezioni. Senza troppi rimpianti. 

Non è qualcosa di cui scandalizzarsi: la “politica del consumo” è il riflesso naturale della “società del consumo”, un modo preciso di interpretare la “domanda” dei cittadini.

In un mondo dove sono sempre di più i disillusi sulle capacità della politica di offrire risposte sul presente e visioni del futuro, i partiti hanno capito che il loro compito è quello di proporre un’offerta capace di soddisfare il maggior numero di gusti diversi e variegati possibile.

Ma sarebbe giusto chiedersi se è così per tutti, visto che storicamente sono esistite forze che si sono date il compito di dare forma al possibile, anziché metterlo in vetrina.

Shopping di politici

La domanda è legittima anche per quella sinistra che da tempo sembra essersi adeguata all’intercettazione dell’elettorato a partire dalla “politica del consumo”. Persino l’idea stessa delle primarie offre la possibilità di “scegliere” il politico preferito.

Certo la platea dei suoi “acquirenti” è diversa da quella che ha mandato Giorgia Meloni al governo. Ma, sebbene gli elettori di sinistra abbiano gusti affini tra loro, non sembrano altrettanto convinti sulla scelta del prodotto. È come se entrassero in un negozio di abbigliamento con l’intenzione di acquistare un abito rosso, ma senza preferenze chiare su marca o taglio.

Così può succedere che, quando si cerca di dare risposta alle richieste dei cittadini, ci si accorga di quanto in realtà sia articolata la domanda. Di norma i valori e i principi che caratterizzano la proposta di un partito dovrebbero costituire i parametri che restringono le alternative della scelta, specie se si vuole che essi vengano riflessi in un preciso progetto di società.

Ma l’impressione è che le primarie abbiano esternato una generica “voglia di qualcosa di sinistra”: un desiderio che comprende esigenze anche molto diverse che vanno dal salario minimo, allo ius soli. L’unica certezza è che non si vuole vestire di nero.

Potrebbe essere proprio questa una delle chiavi del successo della nuova segreteria e al contempo la spiegazione del suo nascere più dalle aspirazioni degli elettori, che dalle intenzioni degli iscritti al partito. Elly Schlein ha avuto il merito di saper interpretare aspirazioni allargate, focalizzando valori e principi diversi, ma propri della sinistra, ed intercettando così più efficacemente un numero maggiore di esigenze diverse.

Ottenere partecipazione

Adesso però la sfida diventa un’altra: quella di capire prima degli altri che la “politica del consumo” è utile a smuovere l’interesse, ma che una vera forza di sinistra ha bisogno più che mai di una “politica della partecipazione”.

Non è certo un’impresa facile trasformare gli elettori-consumatori che stanno cercando un abito pronto, in elettori-partecipatori che contribuiscono a cucirne uno su misura. Tuttavia, è proprio questo che distingue un partito da un comitato elettorale o da un movimento: l’impegno dei propri sostenitori a farsi carico delle battaglie che sentono più coerenti.

È in questo modo che una generica “voglia” si trasforma in una visione più grande: una sintesi condivisa che diventa la ragion d’essere di una comunità in grado di trasformare le idee in un progetto collettivo. E le comunità sono più resistenti di quelle forze che vivono di singoli impegni, prive di una visione unitaria e che, per questo motivo, appena sbagliano il prodotto sullo scaffale escono dal mercato.

Se la sinistra non vuole diventare tutto questo, non basterà chiedere due euro per il carrello agli elettori, bisognerà che costruisca insieme a loro l’intero negozio.

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