Il grande assente di queste elezioni per il presidente della Repubblica è il gruppo parlamentare più numeroso: il Movimento Cinque stelle. I pentastellati dispongono ancora di 236 grandi elettori, compresi i quattro i delegati regionali. All’inizio della legislatura erano 338. La dispersione di questa forza rimanda anche all’esaurimento della loro carica vitale.

Nel 2013, appena sbarcati in parlamento, riuscirono subito a conquistare un ruolo centrale nelle elezioni presidenziali. In primo luogo introducendo il sondaggio fatto tra gli iscritti che indicò una sintonia con la sinistra visto che tutti i suoi 10 candidati appartenevano a quell’area, dalle posizioni più radicali, Dario Fo e Gino Strada a quelle più istituzionali visto che persino Romano Prodi entrò in quella lista. In secondo luogo evidenziando una malizia politica da consumati parlamentari.

Fu infatti l’indicazione finale per Stefano Rodotà che acuì i tormenti del Pd. Disdegnare quella proposta aggiunse un altro tassello alla catena degli errori commessi dalla dirigenza democrat di allora che si avvitò e naufragò tra Franco Marini e Romano Prodi. Ad ogni modo nel 2013 i pentastellati guadagnarono centralità nel dibattito. Ora sono in piena afasia.

Giuseppe Conte dice e disdice, se non ci fossero gli sherpa del Pd a tenerlo a bada rischierebbe ad ogni passo di fare un patatrac. Ma non è solo colpa sua: il partito ha perso la bussola e naviga a vista. Tanto che non è in grado di fare una proposta. Si affaccia l’impressione che non abbia più contatti con la classe dirigente per poter essere propositivo.

Dopo il successo del M5s a Roma e a Torino nella primavera del 2016, poi bissato dalla campagna contro il referendum sulla riforma costituzionale renziana, la classe dirigente italiana, e non solo, aveva cominciato ad annusare questo nuovo fenomeno. Esponenti dell’establishment avevano partecipato a incontri e convegni spesso organizzati dalla Casaleggio Associati. Tutto è precipitato al momento della formazione del primo governo Conte quando, di fronte al rifiuto del presidente Mattarella di nominare Paolo Savona al ministero dell’Economia, il duo Di Battista-Di Maio invocò  l’impeachment. Per fortuna la saggezza di Mattarella prevalse e li perdonò in fretta. Ma il feeling con la classe dirigente si era rotto. Né si è riallacciato in seguito, sia per l’intesa con la Lega anti-euro sia per ulteriori scivolate anti-sistemiche (l’incontro con i Gilet Gialli in Francia).  Nemmeno la premiership di Conte e il consenso popolare di cui ha goduto sono serviti a riposizionare il M5s al centro di un sistema di relazioni. 

Infine, è mancata una classe politica di un qualche spessore. Tra le centinaia di eletti, pochissimi hanno superato l’asticella della sufficienza. E oggi il M5s è afono e marginale. Per questo il governo delle sue truppe appare incerto, tanto da favorire esiti imprevisti.

© Riproduzione riservata