Il nostro, non è un paese per i migliori. Coloro che emergono perché hanno studiato, hanno fatto un percorso di vita e di carriera professionale brillante nelle istituzioni o nella politica o nella vita civile, hanno reputazione nazionale e internazionale, si sono impegnati a fondo senza lasciarsi distrarre dalla pur legittima voglia di arricchirsi.

Vengono visti spesso con fastidio dai politici, sono considerati supponenti, sembrano stare lì solo per testimoniare la modestia e l’inconsistenza di tutti gli altri.

Il paese si può affidare a loro quando ci sono difficoltà da superare, ma poi, una volta superate, è meglio sbarazzarsene, magari facendo leva su qualche errore o qualche atteggiamento da ironizzare presso l’opinione pubblica.

Era già successo con Mario Monti e si è puntualmente ripetuto con Mario Draghi. Il primo Mario aveva portato il paese fuori da una tempesta micidiale generata dal governo Berlusconi, deriso dal mondo intero e con lo spread che si allargava a dismisura.

Il governo Monti ebbe il merito di introdurre importanti riforme, a cominciare da quella delle pensioni, di recuperare il controllo della finanza pubblica e di ristabilire un clima di fiducia verso il nostro paese.

Sembrava lanciato a diventare il prossimo presidente della Repubblica, alla fine del settennato di Giorgio Napolitano e sarebbe stata un’ottima scelta. Invece, col pretesto che aveva fondato un partito, che si era fatto riprendere dalla televisione a terra con un cagnolino, che aveva dovuto imporre sacrifici necessari al paese, venne scartato subito e, dopo aver bruciato un altro dei nostri migliori esponenti (Romano Prodi) e diversi tentativi di trovare un accordo tra i partiti, si ricorse al Napolitano bis.

Con il secondo Mario le cose sembravano andare diversamente. Il governo Draghi era stato nominato non per fare sacrifici, ma per spendere bene una massa inaudita di denari (il Next generation Eu), dopo che il governo Conte II era stato fatto cadere da un parlamento dove latitavano (e latitano tuttora) reali maggioranze.

Il governo, nato per dare e non per prendere (Draghi dixit), ha accontentato un po’ tutti, anche chi era rimasto in solitaria opposizione. Sembrava dunque non esserci dubbi che, alla scadenza del settennato di Sergio Mattarella, toccasse a Mario Draghi prendere quel posto. Si era così certi di tale esito che, a fronte del naturale riserbo del presidente del Consiglio, si sono elevate alte, anzi altissime, le richieste da parte di tutti i politici e degli opinionisti perché Draghi si pronunciasse sulla sua eventuale disponibilità a fare il gran passo. E, come ebbe a dire Manzoni, «lo sventurato rispose!».

Quando, dopo diverse settimane di richieste perché si pronunciasse, Draghi lasciò intuire in una conferenza stampa che, qualora il parlamento lo avesse deciso, non avrebbe disdegnato di diventare presidente della Repubblica, allora tutto si rovesciò contro di lui, al grido: «vuol far cadere il governo!».

Da lì la sarabanda di candidature irricevibili, impresentabili e improbabili che è terminata, comunque, nel migliore dei modi con la ripetizione del bis al presidente uscente.

È così che il governo Draghi continuerà, ma in un clima politico deteriorato da questa vicenda e dovendo affrontare una congiuntura che non sarà così favorevole come è stata finora, tanto più che si avvicinerà la campagna elettorale per il rinnovo di un parlamento di ridotte dimensioni.

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