Quando, con tanta fatica, nei paesi di tradizione illuminista si volle distinguere il reato dal peccato, lo stato rinunciò al ruolo ingrato, e alquanto dispendioso, di ente moralizzatore.

Da allora, nel campo del diritto, un reato è reato perché la legge lo proibisce –  non perché sia un male morale – si lascia poi ad altri istituti, oltreché a cittadine e cittadini a ciò disposti, l’onere di giudicarne la natura.

Si obietterà certo che la legge tende a proibire condotte che quegli istituti – oltreché quelle cittadine e quei cittadini, considerano mali morali – e pure questo è innegabile.

Su una tale divaricazione d’opinioni, la teoria giuridica del Novecento s’è spaccata. Qui però non si vuole stabilire le sorti di eminenti teoresi, ma rilevare un punto sul quale non sarà difficile convenire, al netto di ampi dissensi su tutto il resto.

Che una condotta costituisca un reato perché lo stato la proibisce, o che quella condotta venga proibita perché tra la cittadinanza prevale un giudizio censorio, il reato è pur sempre caratterizzato da due proprietà indubbie, vale a dire la storicità e la matrice culturale.

Queste due proprietà valgono per un tabù come l’incesto, che si crederebbe il più diffuso nella storia, ci si figuri per le altre imperizie umane.

Sistemi valoriali diversi

Che senso ha, quindi, parlare di reato universale? In sintesi, per come se ne parla oggi in relazione alla maternità surrogata, riguarda la perseguibilità all’estero di cittadinə intalianə che vi ricorrono là dove essa è legale.

Quindi, è un comportamento che viene punito entro i confini di un certo stato e che lo stesso chiede venga punito anche quando si verifica oltre i suoi confini. Come se, dato che nelle Filippine intonare My Way di Frank Sinatra è ritenuto un crimine, il governo di Manila pretendesse che io denunciassi un loro cittadino che l’altra sera a Roma la stonava al karaoke.

Si replicherà con qualche ira e maggior sdegno: ma il reato universale intende perseguire condotte aberranti e lesive dell’umanità! Senza entrare nel merito, il problema sta tutto lì: ciò che si ritiene sia una condotta aberrante e lesiva dipende perlopiù da come si concepisce il mondo e da quello che si intende come valore morale.

Certo, ci sono costanti universali su cui ogni cultura conviene, ma non c’è bisogno di un dottorato in antropologia sociale per capire che queste costanti sono meno di quante si creda e assai più controverse di quanto si ammetta.

Sicché, il reato universale, o quel che al momento vuol farsi passare, è innanzitutto un segno di vanagloria morale: si pretende indicare, al di fuori di una certa tradizione, cosa sia il male, e si chiede di agire di conseguenza a stati che non condividono quella tradizione.

L’umanità non esiste

Ma c’è persino di più. Proprio una delle lampare del pensiero conservatore, il giurista tedesco Carl Schmitt, nel secondo dopoguerra metteva in guardia dai moralizzatori universali.

Richiamava la massima «chi dice umanità cerca di ingannarti», di Pierre-Joseph Proudhon, in polemica con il diritto universale (preteso) umanitario degli stati occidentali (specie i vincitori, specie di sponda statunitense).

Per Schmitt, si tratta di un imperialismo etico in belletto, dissimulato dalla falsa neutralità della toga. Ma non occorre essere schmittiani per cogliere il senso di quel caveat: qualunque nozione di crimine ha sempre una storia alle spalle e, comunque sia, sempre veicola valori morali di parte.

Sicché, il reato universale che si discute in questi giorni alla Camera sarà pure del tutto inefficace, come sostiene chi giustamente protesta contro la moralizzazione surrettizia di una condotta su cui al momento non c’è alcun consenso universale.

L’errore argomentativo

Eppure, la cosa meno commendevole, a me pare, è che si cerchi di vincere una battaglia etica, non già con argomenti e controargomenti, bensì con la clava nodosa della legge statale (che viene mulinata, notoriamente, in regime di necessitato monopolio).

E questo ricorda da vicino quella fallacia che in logica si chiama argumentum ad baculum, o appello al bastone, per cui la verità di un’asserzione dipende dalla robustezza della minaccia tesa a farla accettare.

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