Martedì l’Alta corte di Londra era chiamata a prendere una decisione semplice: il giornalismo non è un reato oppure lo è? La decisione ruotava unicamente intorno alla presenza o all’assenza di quell’avverbio di negazione: non. Includerlo, è come nelle democrazie s’intende il giornalismo. Ometterlo, è altro.

L’Alta corte di Londra ha rimandato la decisione. Tre dei nove punti presentati dalla difesa di Julian Assange sono stati considerati fondati, ma – fatto grave – non quelli relativi ai rischi per la salute in caso di estradizione e quello sulla dimensione politica, meglio di persecuzione politica, di tutta la vicenda.

Tuttavia, su quei tre punti – piena possibilità di ricorso in appello, rischio di discriminazione a causa della nazionalità di Assange e pericolo di condanna a morte – i giudici britannici hanno chiesto ancora una volta agli Usa di rassicurarli. Entro il 16 aprile, dunque, gli Usa potranno fornire le seguenti “assicurazioni diplomatiche”: che, ovviamente, Assange potrà esercitare appieno il diritto d’appello contro decisioni a lui contrarie; che, figuriamoci, non si discriminerà un cittadino australiano consegnato dalla giustizia britannica; e, infine, ma certo, che non ci sarà una condanna a morte.

Poi, il 20 maggio, si deciderà se Assange avrà diritto a un ulteriore appello.

La posizione USa

La sensazione diffusa nei primi minuti successivi alla sentenza, quella di uno scampato pericolo per il fatto che, mentre leggerete questo articolo, Assange non sarà già nella cella di una prigione di massima sicurezza degli Usa, ha lasciato posto a un certo pessimismo.

L’Alta Corte di Londra non ha cambiato idea sull’estradabilità di Assange. Gli Usa non hanno rinunciato a chiederne l’estradizione per 18 capi d’accusa: 17 ai sensi della Legge sullo spionaggio di oltre un secolo fa - Assange è il primo soggetto editoriale a essere incriminato per quella norma - e uno ai sensi della Legge sulle frodi e gli abusi informatici.

Con la loro intenzione di imprigionarlo, gli Usa stanno mandando un messaggio chiaro ai giornalisti in ogni parte del mondo: possono diventare un bersaglio e non devono sentirsi al sicuro se ricevono e pubblicano materiale riservato, anche se lo fanno in nome dell’interesse pubblico. Eppure, il giornalismo dovrebbe essere proprio questo. Nel 2010 Assange ha reso di pubblico dominio oltre 251mila documenti diplomatici statunitensi, molti dei quali etichettati come “confidenziali” o “segreti”.

Tra questi, una serie di notizie fornite dall’allora soldato Bradley Manning – ora, Elizabeth Chelsea Manning – su crimini di guerra perpetrati dagli Usa durante le operazioni militari degli anni precedenti in Iraq e Afghanistan: torture, uccisioni deliberate di civili inermi – bambini e giornalisti inclusi – e dei loro soccorritori.

Il paradosso

Le principali testate internazionali hanno pubblicato i documenti forniti da Wikileaks, ritenendo a loro volta che si trattasse di puro giornalismo. Anni dopo, hanno preso le distanze. Via via, la narrazione su Assange è stata accompagnata dall’aggettivo “controverso”, un rifugio comodo per chi non vuole prendere una posizione netta.

L’11 aprile Assange entrerà, esausto e afflitto da gravi problemi di salute, nel sesto anno di detenzione all’interno del supercarcere di Belmarsh. Poiché il centro statunitense di Guantánamo è diventato il parametro mondiale su cui misurare l’inumanità delle condizioni di prigionia, Belmarsh è chiamata la “Guantánamo del Regno Unito”.

Ribadiamolo: rendere pubbliche informazioni su crimini di diritto internazionale è una pietra angolare della libertà di stampa e del diritto dell’opinione pubblica ad accedere alle informazioni. Tutto questo dovrebbe essere oggetto di protezione e non di criminalizzazione.

Sui crimini resi noti da Wikileaks, negli Usa non è mai stata aperta alcuna indagine: la stagione della “guerra al terrore”, degli interventi militari in Afghanistan e in Iraq, delle torture ad Abu Ghraib, dello smantellamento delle protezioni internazionali sui diritti umani che è in corso da 22 anni a Guantánamo, è segnata dall’impunità.

Se Assange verrà estradato, si verificherà dunque un fatto paradossale: non saranno puniti coloro che hanno ordinato e commesso crimini di guerra bensì colui che li ha resi noti. Per questo è fondamentale riaffermare un principio: il giornalismo non è un reato. Il 20 maggio avremo notizie su quell’avverbio.

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