Armenia e Azerbaijan sono ancora lontani dalla pace. Gli armeni vorrebbero la definitiva stabilizzazione delle frontiere (con la restituzione di alcune piccole aree occupate durante l’ultima offensiva) e non sognano più il Nagorno, ormai perduto. Gli azeri chiedono il corridoio di Zangezur che li ricolleghi alla exclave del Nakhchivan e permetta al paese di toccare la Turchia. Si tratta apparentemente di poca cosa che però ha pesanti conseguenze geostrategiche.

Per evitare di rimanere totalmente isolati e scollegati dall’Iran (vista la chiusura turca), gli armeni propongono di riattivare e riammodernare una vecchia ferrovia (Baku-Erevan) mantenendo però il controllo dei posti di frontiera. Gli azeri vogliono di più.

Gli ultimi colloqui bilaterali a Berlino (ma senza tedeschi) sono durati 7 ore e non hanno portato a niente salvo l’impegno a rivedersi. Il tema è caldo perché riguarda soprattutto la Russia. Il corridoio azero avrebbe come effetto di bloccare il passaggio dei russi verso i mari meridionali, segnatamente verso il golfo persico via Iran.

La stretta relazione tra Armenia e Iran, paesi di per sé molto diversi, dipende precisamente da questo: la Russia ha bisogno di vedersi garantito un libero movimento verso sud (asse Georgia-Armenia-Iran) visto che della Turchia non può fidarsi e che gli altri accessi al mare sono minacciati. La guerra in Ucraina impedisce ai russi la piena fruizione del mar Nero così come il passaggio delle navi militari attraverso il Bosforo (bloccati da Ankara in forza dei trattati di Montreux).

Le sanzioni e la pressione occidentali frenano l’utilizzo delle basi sul Mediterraneo (Siria) e sul mar Baltico, dopo l’entrata di Svezia e Finlandia nella Nato. In sintesi la Russia si sente ostacolata e costretta a cercare altri sbocchi. Proprio in un momento in cui le basi navali hanno assunto globalmente un alto valore commerciale e militare, come dimostrano la Cina, la Turchia o i paesi del Golfo alla continua ricerca di nuovi approdi in Africa, Asia e nel Mediterraneo, Mosca si sente arginata e non vuole restare circoscritta alla sola forza terrestre.

Chi in Occidente si soddisfa di tale situazione russa deve tuttavia temere reazioni inconsulte. Gli armeni ne sono una vittima collaterale: da quando il premier filo-europeo Nikol Pashinyan è andato al potere a Erevan, Mosca si è adombrata al punto di non intervenire con la sua forza di interposizione per fermare l’ultimo assalto azero.

Così il Nagorno è andato perduto per sempre. La Russia vuole chiarire – con le buone e le cattive – che l’Armenia dipende soltanto dalla sua volontà. Malgrado l’Unione europea abbia inviato nel paese una missione disarmata (EUMA) per controllare l’ultima linea del cessate il fuoco, e gli americani si apprestino a manovre militari congiunte quest’estate, Erevan sa che senza Mosca potrebbe vedersela davvero brutta.

Gli echi dell’URSS

D’altronde l’Armenia esporta e importa essenzialmente dalla Russia, dalla quale dipende anche per il gas che le permette di sopravvivere. Le esigenze strategiche della Russia tengono in ostaggio il Caucaso: al Cremlino si ragiona ancora come durante l’epoca sovietica.

L’Occidente non ha tante armi a sua disposizione per reagire: non può sostituirsi economicamente ed è troppo distante dal punto di vista militare. Né può contare su Turchia e Azerbaijan che sono (per ora) gli unici a guadagnarci in ogni caso. Le tensioni sull’adesione alla UE della Georgia sono già evidenti, mentre per l’Armenia rimangono latenti: entrambi i paesi hanno già perso parte del proprio territorio, come ora sta accadendo all’Ucraina.

Il piano generale di Mosca è di agguantare ogni occasione per recuperare il massimo possibile di territori una volta dell’Urss (o addirittura dell’impero zarista): una politica coloniale tipica da grande impero che vuole garantirsi sbocchi e accessi lungo la sua interminabile frontiera. In passato Mosca si trovò ad affrontare su quelle terre l’impero britannico.

Oggi sfida l’Occidente ma la narrativa è la stessa. Solo comprendendo tale impostazione di fondo si può elaborare una reazione politica efficace di contenimento, con un gioco incrociato di accordi, scambi, alleanze, garanzie reciproche, minacce e avvertimenti. Un nuovo “grande gioco” che eviti conflagrazioni maggiori. In tale contesto va tenuto conto che la relativa stabilità del post seconda guerra mondiale poggiava sul fatto che la relazione tra Usa e Urss era tra due ex alleati entrambi vincitori di quel conflitto. In altre parole un rapporto formalmente tra pari.

Ora le cose non stanno più così, soprattutto da quando l’Occidente si è convinto di avere vinto la guerra fredda. Senza una fase innovativa di immaginazione politico-diplomatica, sappiamo già che il risultato è soltanto la guerra: quella endemica e a pezzi avvenuta fino al 2022, o quella generalizzata a cui stiamo assistendo, con i suoi imprevedibili effetti.

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