Se si parla di economia, si finisce a parlare anche di politica. Segnano il passo i grandi progetti dell’Unione europea in materia bancaria e finanziaria, ma il prossimo grande ostacolo – il nuovo patto di stabilità e crescita – potrebbe paradossalmente far ripartire la “unione sempre più stretta” citata nei trattati di Roma del 1957. Un grande ruolo potrà giocarlo l’Italia, se farà scelte sagge su Quirinale e palazzo Chigi. Ma ci pensano i partiti?

Completare l’unione economica

Per far luce su questi temi politici ora in ombra bisogna inoltrarsi con un po’ di pazienza dentro quelli tecnici. Dal 2015 l’agenda dell’Unione europea è fissata dal rapporto “Completare l’unione economica e monetaria europea”, compilato dai cinque presidenti di allora: Jean-Claude Juncker (Commissione), Donald Tusk (Consiglio), Jeroen Dijsselbloem (Eurogruppo), Mario Draghi (Bce) e Martin Schulz (Parlamento).

Delinea tre fasi per dare all’Eurozona, di lì a dieci anni, funzioni di stabilizzazione fiscale e una tesoreria centrale. Sono passi essenziali per l’euro, considerando che sono stati sottoscritti anche da un “falco” come Dijsselbloem. Dopo sei anni e mezzo, la sola buona nuova è il Next generation Eu (Ngeu), cui si è giunti per la tragedia del Covid; perché abbia una chance di divenire strumento permanente, la realizzazione deve essere perfetta.

Prossimi passi

I presidenti volevano unificare la supervisione bancaria e il fondo di risoluzione; ora ci siamo, manca però il punto di cui alla richiesta conseguente, l’assicurazione europea sui depositi. Soffrono perciò le banche con sede in stati più indebitati; segmentati i mercati bancari nazionali, escluse le fusioni transnazionali, recintata la liquidità, siamo lontani dal “campo di gioco piano”, svanisce il libero movimento dei capitali.

Segna il passo anche l’altro progetto del rapporto, l’unione dei mercati del capitale (Umc); mirava a raddoppiare, da un terzo a due terzi del totale, la quota dei finanziamenti raccolta dalle imprese Ue sul mercato, dimezzando il peso, complementare, del credito bancario. Ciò perché il mercato assorbe il crollo di un titolo meglio di come, ad esempio, una banca assorbe un’uguale perdita. Ben diversi sono, nei due casi, gli effetti di trascinamento.

Una sconfitta per l’Europa

Finché il Regno Unito era nell’Unione europea, per l’Umc bastava forse la centralità di Londra; ora che è fuori, dovremmo procedere. Eppure l’Ue stenta a convincere gli intermediari a condividere i dati di mercato sui titoli in un solo, grande database (negli Stati Uniti c’è da decenni).

Per i cinque presidenti, poi, la supervisione sui mercati doveva migrare dalle autorità nazionali all’Esma, come per la supervisione delle grandi banche, passata a Bce. Anche qui s’opponeva Londra, ma a cinque anni da Brexit siamo alla casella zero. I mercati europei sono piccoli, segmentati, inefficienti, nonostante il recente acquisto di Borsa Italiana da parte di Euronext. Le imprese perdono occasioni di sviluppo, ben più perde l’Europa tutta.

Lo spread

Il 30 novembre, partecipando a un incontro virtuale organizzato dalla Banque de France sull’Umc, ho chiesto alla commissaria Ue ai servizi finanziari, Mairead McGuinness, se sarà mai accentrata nell’Esma la sorveglianza. La sua guardinga risposta dice che ne siamo ancora ben lungi: il dialogo è in corso (da oltre sei anni...), all’Esma andrà, forse, la sorveglianza, oltre che sulle agenzie di rating, sulle Casse centrali di compensazione. È un errore, grave.

Si dice che l’Umc sia ferma perché ogni stato membro ha i propri regimi fiscali e legali (specie sull’insolvenza). Come ha detto nell’incontro Maria Demertzis dello think tank Bruegel quelle differenze nei regimi legali non impediscono agli europei di investire in massa negli Usa; sale di conseguenza lo spread nei premi di rischio sull’equity fra mercato Usa e Ue, ora intorno al 4 per cento.

In soldoni, il capitale costa più caro alle imprese europee che a quelle Usa. Influiscono certo anche altre variabili; le seconde sono più sulla frontiera dell’innovazione, meno le nostre, ma anche ciò discende dalla diversità fra noi e loro, per ampiezza e spessore dei mercati. Come ridurre, almeno, quello spread?

Tarparsi le ali

In un’unione nata sull’economia, i ritardi in politica estera e di difesa hanno ragioni precise; da quando nel 1954 la Francia bocciò la Comunità europea di difesa, tutto ruota su di lei, sola potenza nucleare della Ue. Ma ritardi simili nell’integrazione economica e monetaria non può più permetterseli l’Europa, alle prese con transizione energetica, digitale, dramma migratorio, Covid.

Ci tarpiamo le ali da soli, potremmo agire sui mercati come un gigante da 350 milioni di persone, ma non mettiamo insieme le forze. La squadra europea vincerebbe a mani basse, ma preferiamo perdere, attaccati alla nostra bella maglietta nazionale. L’emissione di titoli per il Ngeu non basta, la mancanza di un vasto, e ampiamente diffuso, titolo della Ue, comparabile ai treasury americani, svilisce le grandi possibilità dell’euro sui mercati e nei commerci mondiali.

Un patto nuovo

L’Europa è, in potenza, un protagonista della geopolitica mondiale, in atto un comprimario locale, bullizzato anche da autocrati di terza fila, tenuti su da ben più potenti sodali.

La storia della Ue procede per balzi, talvolta superando di slancio blocchi storici. A rimettere in moto il treno potrebbe essere il prossimo grosso ostacolo sui binari. Se non succede nulla, a fine 2022 torna in vigore il patto di stabilità e crescita.

I “frugali” vogliono tornare a quel testo, accantonato per Covid e sempre inapplicato; è invece possibile, verosimile anzi, che il nuovo patto non sarà la risciacquatura del vecchio.

Un’opportunità da cogliere

Le masse tettoniche in movimento fra Parigi, Roma, ora anche Berlino, vanno in tutt’altra direzione. È ormai palese che è un altro il punto centrale: tocca il problema del gigantesco debito pubblico pregresso, non solo italiano.

Tale massa minaccia il futuro dell’Unione, va isolata e messa in sicurezza, necessaria base del Patto di domani. Va studiata una soluzione praticabile, digeribile a Berlino; allora peserebbero meno le giuste diatribe su golden rule e velocità di rientro dal debito.

L’Italia, con i più alti avanzi primari dell’Eurozona, tornerebbe a vedere la luce in fondo al tunnel; con lei l’Europa tutta. Sta al parlamento, che fra poco eleggerà il presidente della Repubblica, individuare le due persone, al Quirinale e a palazzo Chigi, più in grado di cogliere questa storica opportunità. È una scelta da far tremare i polsi, sarà per questo che il dibattito ci gira intorno ma non lo affronta. La clessidra intanto si svuota velocemente.

© Riproduzione riservata