Quando si vince una gara  offerta, tesa fino all'ultimo secondo, la gioia è incontenibile. Erano inevitabili le scorribande notturne per le strade, con cori e abbracci festanti dopo il match Italia-Inghilterra nella finale degli Europei

Lascia invece perplessi la sbornia nazionalista che è tracimata da tanti commenti nei giorni seguenti. La soddisfazione per un risultato ottenuto si è trasfigurata in una visione, sublimata, dell'Italia e addirittura di tutta l'Ue come se si trattasse di una rivincita sulla Brexit.

Lo sport non è estraneo alle manipolazioni politiche. Fin dagli albori del Novecento, quando le varie discipline sportive cominciarono a organizzarsi, è stato usato dai governi come veicolo di promozione dell'immagine della nazione. Una immagine di forza e di potenza, ovviamente.

L'ideale decoubertiniano del valore della partecipazione in sé, disinteressata al podio, scolorì preso in un omaggio di facciata. Come dimostra i lavori dello storico Nicola Sbetti, nei primi decenni del secolo scorso, lo sport fu usato come uno strumento di politica estera per affermare la potenza marziale tanto delle democrazie europee che dei regimi fascisti (pensiamo alle Olimpiadi di Berlino). Poi, anche nel corso della Guerra fredda il medagliere olimpico divenne un test della superiorità dei rispettivi sistemi politico-sociali.

L'alta impresa della squadra di Roberto Mancini sembra inserirsi in questa falsariga: il successo sportivo viene associato a un sistema rinnovato, coeso ed entusiasta, spirito pubblico, nonché un radioso futuro della nostra economia e, persino, del politico. Insomma, l'Italia è di nuovo in piedi!

Questa esaltazione nazionalista è del tutto fuori luogo. Perché, purtroppo, né la misurata esultanza di Sergio Mattarella, tanto più apprezzata dal pubblico proprio proprio per lo strappo al suo contegno abituale, e nemmeno l'inedita disinvoltura del presidente del Consiglio Mario Draghi nell'incontro con la squadra azzurra, possono ricucire le che attraversano un'opinione pubblica tuttora frastornata dalla crisi economico-pandemica.

Lo sport ha soppiantato la religione come oppio dei popoli ei cannoni come fattore di potenza. Ma dal sonno della ragione poi ci si sveglia, e si scopre che una impresa sui campi di calcio o di tennis non ha nulla a che vedere con la vita reale.

Le due grandi vittorie degli ultimi anni nei mondiali nel 1982 e 2006, contrariamente alle elucubrazioni di questi giorni, rimasero confinate su quei prati. E soprattutto, non diedero la stura a esaltazioni proto-sovranista.

La conquista di Wembley rimane una bella pagina sportiva senza dover cercare significati reconditi e auspici benigni nelle parate di Gigio Donnarumma.

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