L’accordo raggiunto ieri notte in Europa in merito alla direttiva sui salari minimi è una conferma di quanto già emerso nei mesi scorsi. In particolare di quanto il parlamento europeo aveva proposto, emendando la prima versione della Commissione, prevedendo che i Paesi che hanno una copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80 per cento (e non al 70 per cento, come nella prima versione) devono implementare un piano di promozione della stessa per aumentare appunto il tasso di copertura.

Per il resto si conferma una direttiva che ha come obiettivo quello di conciliare una preoccupazione sociale relativa ai salari in Europa con la storia e l’assetto socio-economico dei diversi paesi.

Da questo punto di vista l’aumento da 70 per cento a 80 per cento sembra non cambiare molto, considerando che i dati Ocse più recenti collocano i paesi che oggi non hanno un salario minimo legale comunque sopra questa soglia.

Gli effetti sull’Italia

Ma cosa cambia quindi per l’Italia ora? Stando a quanto comunicato nella conferenza stampa di ieri e in attesa del testo ufficiale che verrà approvato nei prossimi giorni, niente. La direttiva pone condizioni che l’Italia rispetta, avendo una copertura della contrattazione collettiva per i lavoratori dipendenti del 100 per cento.

Quindi, sulla carta, la formula “ce lo chiede l’Europa”, da sempre utilizzata a piacimento come cavallo di Troia o come maledizione, non è applicabile. Ma questo non significa che tutto rimarrà per forza fermo, considerato il grande attivismo con il quale parti di governo e di maggioranza e di parti sociali di queste ultime settimane.

Attivismo sia nella direzione di introdurre un salario minimo legale sia nel proporre interventi normativi volti a risolvere le criticità sui salari che comunque permangono e che spesso generano confusione.

In particolare la distinzione tra il tema del salario minimo e quello del rapporto tra salari e inflazione, altra grande urgenza del momento, non sembra sempre essere chiara nel dibattito.

Perché parlare di minimi salariali e quindi di lavoro povero è altra cosa rispetto a parlare della perdita di potere d’acquisto dei lavoratori come conseguenza dell’inflazione, anche se è chiaro che l’inflazione peserà di più su chi ha un salario più basso.

Smarcata questa distinzione e individuati i confini della direttiva i problemi sui salari minimi in Italia restano, ma sembra che esulino dagli ambiti ai quali la direttiva vuole rivolgersi.

Oltre i contratti nazionali

L’insieme delle criticità può dividersi in due questioni, sulle quale le parti sociali e il governo potrebbero presto iniziare a discutere alla ricerca di un accordo.

La prima riguarda il fatto che in Italia il numero dei contratti collettivi negli ultimi anni è cresciuto molto e quindi, sostengono i critici, il semplice criterio della copertura contrattazione collettiva non è garanzia di minimi salariali adeguati. La presenza di molti contratti firmati da soggetti non rappresentativi non renderebbe più la contrattazione una garanzia.

Allo stesso tempo è utile però sottolineare come tra i 1000 contratti presenti in Italia la metà non risulta attiva, e che le stime dicono che i contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil coprono il 97 per cento dei lavoratori.

Numeri che non negano l’anomalia dei c.d. contratti pirata ma che ne ridimensionano la portata, anche grazie ad una identificazione tutto sommato semplice, a partire dai dati a disposizione dell’Inps sul numero dei lavoratori che applicano i diversi contratti, di quali sono i minimi degli accordi più utilizzati.

C’è poi un secondo insieme di criticità che porta alla presenza di sacche di lavoro povero in aumento negli ultimi anni.

Si tratta di tutto quell’insieme di lavori per i quali non vi sono minimi contrattuali ma indennità molto basse (come nel caso dei tirocini), il lavoro occasionale, il finto lavoro autonomo, il lavoro irregolare.

Tutte tipologie di lavoro che per diversi motivi sfuggono ai minimi tabellari individuati dalla contrattazione collettiva e che coinvolgono numeri importanti, si pensi ai 350 mila tirocinanti, all’1,5 milioni di lavoratori domestici irregolari e, più in generale, alla stima di 3,5 milioni di lavoratori irregolari secondo Istat.

Per questo enorme insieme di persone dove sembra concentrarsi il grosso del problema dei lavori poveri, il salario minimo servirebbe a poco, o perché non si applica o perché l’irregolarità molto probabilmente rimarrebbe tale e quale anche davanti a una nuova legge. Si potrebbe partire da qui. 

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