In Italia, sono 156 le scuole e 39 gli atenei universitari che hanno attivato la “carriera alias”, cioè la possibilità di essere chimatə con il proprio nome di elezione e non con quello scelto dai genitori al momento della nascita.

Una possibilità che è scelta in accordo con la famiglia se minorenni, autonomamente se maggiorenni. La “carriera alias” è frutto di una lunga battaglia per il riconoscimento di un diritto, quello di essere ricosnociutə per ciò che si decide di essere, in termini di genere.

Ovviamente, anche se non è ovvio ai movimenti Pro Vita, che da anni la contestano, non è certo la “carriera alias” che genera turbamenti negli adolescenti. Tenta al contrario di risolverne qualcuno.

Non tutte le persone che usufruiscono di questa possibilità, del resto, poi effettueranno una transizione di genere completa, e questa è una cosa che appare ancora più scandalosa.

Per certe persone, infatti, è “normale” soltanto una cosa: identificarsi con il proprio sesso biologico e scegliere l’altro per accoppiarsi. Una “normalità” che in natura, a pensarci bene, prevedono solo questi movimenti, ché la varietà delle possibilità nel mondo animale è invece infinita.

Come ebbe a dire una volta Porpora Marcasciano, scrittrice e attivista per i diritti delle persone trans, e lo disse a una persona a me carissima, «qui c’è il te uomo, qua c’è il te donna. Quello che c’è nel mezzo è tutto legittimo», «prenditi il tuo tempo per capire dove vuoi stare, senza fretta ma soprattutto cercando di evitare ansia o dolore».

Ansia e dolore iniziano spesso in famiglia, ma esplodono a scuola. Là dove il genere viene inchiodato fin dall’infanzia a stereotipi che riguardano prima di tutto il colore del grembiulino, i giochi buoni per maschi o femmine, i mestieri della mamma e del papà. Che sia dunque la scuola a occuparsi di questo tema è fondamentale. Ma come lo fa?

Spesso, va detto, in modo troppo superficiale. Normalmente la “carriera alias” viene proposta da collettivi di studenti e/o dirigenti particolarmente illuminati seguiti da docenti che lo sono allo stesso modo.

Poi però nessuno si prende la briga di formare tutti gli insegnanti, che si trovano a dover mettere in pratica una “norma” scolastica che magari non solo non comprendono ma neppure accettano.

Questo accade anche all’Università dove è possibile incontrare professori che rifiutano di accettare il libretto elettronico, dove l’identità scelta è stata accettata proprio in base alla carriera alias, e vogliono vedere il documento bloccando così, per esempio, un esame.

Ma la carriera alias è stata introdotta proprio per evitare questo passaggio, per “mostrare un documento” nel quale è scolpito a lettere di fuoco un nome nel quale non ci riconosce più.

Meno dolore 

Perché, allora, opporsi a questo semplice provvedimento che rende la vita meno dolorosa a (poche) persone? Io credo che si tema il contagio. Da storica che studia l’educazione e le marginalità sociali vedo tornare sempre più pervasiva l’idea che ogni diritto concesso agli altri finirà per rovinare anche chi non ne fa richiesta.

Chi si strappa i capelli perché teme il contagio di esseri umani verso altri esseri umani, o peggio, la manipolazione (il plagio si diceva un tempo) da parte delle associazioni lgbt dovrebbe tranquillizzarsi.

La quantità di vincoli legali che separa la scelta di un nome da una scelta di transizione è così imponente che forse ci si potrebbe concentrare maggiormente sul diritto alla salute di questi ragazzi e ragazze che fanno richiesta di un semplice atto di cura, di attenzione, di comprensione.

Ma di fronte alle diffide quante scuole manterranno i regolamenti che prevedono la “carriera alias”, senza alle spalle un efficace dispositivo ministeriale buono per tutti gli istituti tanto richiesto ma mai arrivato negli anni?

C’è solo da sperare che prevalga la volontà di salvaguardare la libertà di scelta di maggiorenni, e proteggere la richiesta di aiuto di minorenni. In attesa di non avere più paura di dirsi per quello che si è.


Questo articolo utilizza lo ə come forma di riflessione metalinguistica sui temi che pone. Se i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo (L. Wittgenstein)  allora, a volte è il caso di provare a superarli.

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