«Perché ti dispiace così tanto?» chiedevo incalzante a questa e a quell’altra persona. Non si trattava di sminuire un dispiacere di tipo luttuoso, ma piuttosto di sondarne le cause. Un modo, in fondo, per chiedere pure a me stessa: perché ti dovrebbe dispiacere anche solo un poco?

La risposta che ho ricevuto in modo più ricorrente è stata: «Perché da che io ho ricordi è sempre esistita», o anche: «Perché tra quelle che ho conosciuto è la cosa che è durata di più».

In tempi di morte del rito osservare un funerale lungo tredici ore è quasi straniante. Il 19 settembre, chi fosse in possesso di uno schermo acceso sa che - per tutto il giorno - è stato possibile proseguire con le attività della vita quotidiana e la certezza, ripassando davanti a quello schermo, di ritrovare una qualche espressione del feretro della regina Elisabetta.

Ancor più straniante è stata forse l’attesa di quel momento, perché in un certo senso si è trattato di un funerale durato undici giorni. Ne hanno parlato anche le persone più disinteressate e, se non ne hanno parlato, almeno per un attimo ci hanno senz’altro pensato.

Il giorno in cui è stata diramata la notizia della morte della regina internet è inevitabilmente esploso.

Osservavo con curiosità e un filo di inquietudine le espressioni di cordoglio che esondavano dai feed. L’inquietudine era data dalla tenerezza.

Messaggi, prodotti da utenti che non erano né parenti né sudditi della casa reale britannica, venivano non di rado accompagnati dall’utilizzo simil-famigliare di diminutivi del nome Elizabeth. Perché colpisce così la morte, pacifica e circondata dall’affetto e/o dall’astio dei suoi cari, di una regina molto anziana e legata a tutt’altro territorio?

Perché colpisce tanto da far levare i lamenti di chi ha esclamato che con lei finiva il Novecento, che pareva impossibile, che sembrava eterna, che sarebbe stato bello averla per sempre qui, con i suoi completi tanto impeccabili quanto aggressivi con la retina da un punto di vista cromatico?

A questi interrogativi può forse rispondere un’ulteriore domanda: che cosa può lasciarci di buono (oltre al fatto di essere stati testimoni di un evento di portata storica) l’aver assistito a una cerimonia funebre macroscopica in tempi di allontanamento dalla morte e abbandono del rito?

Molly Darlington/Pool Photo via AP

Come sappiamo – o piuttosto come dovremmo sapere – la morte è un affare che riguarda tutti. Ma la tendenza a scordare questo particolare è sempre in agguato, e una vita molto lunga e molto esposta da un punto di vista mediatico può diventare inconsapevole icona di eternità.

Se nel sentire di molti la regina Elisabetta incarnava l’infinito, la sua morte ha per forza di cose corrisposto al tradimento di un’ideale (in altre parole: se non muore mai lei, forse non muoio mai anch’io). Tuttavia esiste il rito e attraverso il rito portiamo a compimento il saluto.

Mentre ci avviamo a completare una separazione definitiva al tempo stesso guadagniamo del tempo tecnico, un piccolo bonus che permetta di credere per un attimo che non sia ancora finita, che siamo ancora tutti lì presenti nel bene e nel male.

Così come la lunghissima vita della regina Elisabetta si è stagliata sullo sfondo delle vite di milioni di persone che per lei hanno provato sentimenti di affetto, rabbia o indifferenza, allo stesso modo la lunghissima preparazione delle sue esequie e la messa in scena del rito stesso hanno creato un coinvolgimento di massa per ore e giornate.

Dopo i molti ruoli che ha ricoperto in vita, a Elisabetta è capitato di interpretare anche quello di metafora dell’illusione di eternità e accettazione della finitezza.

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