Era da tempo che non si vedeva un vertice Nato come quello di Vilnius della scorsa settimana. Nei toni solenni di un occidente determiNato ad affrontare la sfida comune, nei presidenti arrembanti in tenuta mimetica, negli accordi sulle forniture di armi, si è rivissuta la liturgia più classica dei tempi della Guerra fredda. La stessa rappresentata in maniera speculare durante i consigli del Patto di Varsavia.

Quello che, tuttavia, mancava in Lituania erano le antiche ideologie che sostenevano e sostanziavano gli incontri sui lati opposti del muro di Berlino. Non un’assenza da poco, considerando che, anche nei momenti più critici, la Guerra fredda è stata anzitutto conflitto di valori: una contesa il cui obbiettivo non erano tanto i territori, ma le idee che vi potevano circolare e le risorse necessarie per attuarle. Oggi, privata dei suoi contorni ideali, la guerra è precipitata nell’infausto tentativo di annientare l’altro, visto, da ambo i lati, non più come il nemico da conquistare e “convertire”, ma come il male assoluto da eliminare.

Visioni opposte

Può sembrare un paradosso, ma il mezzo secolo di instabile pace tra i due blocchi fu reso possibile anche grazie all’esigenza di dare ugual voce a visioni del mondo diametralmente avverse. Non è un caso che esista una certa armonia tra la carta delle Nazioni unite e i fondamenti propri di tante Costituzioni moderne: precisi “patti di convivenza” alla base della coesione sociale di comunità popolate da identità molto diverse tra loro. Come una Costituzione, anche l’ordinamento dell’Onu mira a stabilire gli elementi portanti per la tenuta del patto, primo fra tutti quel diritto internazionale così tanto evocato e calpestato.

Siamo soliti rimproverare all’Onu la mancata attuazione proprio di tale diritto. Non si contano i conflitti scoppiati in spregio alle sue Risoluzioni e gli eccidi perpetrati nell’impotenza dei “caschi blu”. Sotto accusa non sono mai stati gli ideali, ma appunto le regole necessarie ad attuarli: dal potere dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, alla difficoltà a finanziare missioni di interdizione efficaci.

Ora, tuttavia, a preoccuparci dovrebbe essere la perdita di equilibro di quel sistema che, per quanto imperfetto, permetteva per lo meno il reciproco riconoscimento di “avversari” e “nemici”.

In una società globale sempre più arida di princìpi condivisi, l’incipit di uno statuto che impegna i suoi membri a «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» è visto come o troppo stingente o troppo esigente. Più semplice ignorarlo dunque, insieme all’identità del nostro nemico e agli scrupoli ad eliminarlo.

Motivi di speranza

Riserviamoci un minimo di ottimismo: è infatti in situazioni di massima urgenza che l’umanità è riuscita a rimettere in moto il processo “costituente” di nuovi “patti di convivenza” e, considerato l’attuale livello di tensione, le condizioni per una svolta tale potrebbero non essere così lontane.

A patto che prima si colga la lezione dagli errori del passato, a cominciare da quello di considerare le Nazioni unite come un tentativo troppo timido di governo internazionale. Al contrario, il patto siglato nel 1945 ha smesso di funzionare proprio perché si è rivelato troppo ambizioso per una società che non crede più nel potere di grandi utopie condivise e relega il progetto di un mondo in pace alla retorica e ai buoni propositi.

La necessità del confronto

Darci l’obiettivo di una vera e propria Costituzione mondiale appare dunque al momento fuori contesto. Sarebbe invece auspicabile sedersi attorno a un tavolo per ragionare almeno di “regole del gioco” comuni, elaborando un sistema di norme capace di cogliere lo spirito dei tempi e di immaginare nuovi equilibri tra sovranità nazionali e ordine globale.

Anche soltanto l’aspirazione al confronto su un simile proposito sarebbe un bel progresso: quantomeno, vedendosi in volto, potremmo tornare a considerare il nemico come fatto di carne e volontà e non un male assoluto ed anonimo, pronto per essere cancellato premendo un banale pulsante.

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