È dai tempi di Erodoto che ci interroghiamo su dove si trovino i confini d’Europa, ma mai come oggi ci sono apparsi così distanti dalle linee sulla mappa. Dovremmo forse collocarli alle frontiere di Turchia o Polonia dove si ammassano i popoli in fuga dalle guerre? O piuttosto nel mezzo del mar Mediterraneo? E perché non nelle prigioni libiche dove viene rinchiuso chi fugge da un’esistenza di miseria, nei centri di accoglienza strapieni nel sud d’Italia o nelle banlieue francesi che bruciano in queste settimane? Delineare i confini è compito arduo: ci impone di confrontarci con la distanza che separa “noi” da “loro”.

È più “estraneo” un immigrato, un profugo, o un rifugiato? Un ucraino, un siriano, o un rom? Chi scompare sul fondo del mare o chi, in un sobborgo degradato, lotta per non dissolversi nell’oblio della nostra indifferenza?

Silenzi imbarazzati 

Di sicuro sono domande che imbarazzano i 27 capi di Stato e di governo dell’Unione, come dimostra il lungo documento emesso al termine del Consiglio europeo del 30 giugno, dove non c’è traccia del “Patto su immigrazione e asilo” che invece esigeva parole di chiarezza immediate. Un silenzio che non è solo un altro insopportabile fallimento nel tentativo di trovare una posizione comune, ma rischia di diventare lo specchio di un’Europa in sconfortante agonia.

Il peggio è che, nel suo significato di momento che precede la morte, l’agonia potrebbe protrarsi a lungo. Nell’incessante tentativo di rispondere alla domanda “che cosa è l’Europa oggi”, difficilmente i nostri leader rinnegheranno la volontà di trovare una mediazione per una convergenza in verità impossibile. Le prospettive cambierebbero, tuttavia, se volgessimo l’interrogativo al futuro, cominciando a chiederci “cosa vogliamo che diventi l’Europa”. Allora sì che l’agonia acquisterebbe un’altra accezione: quella di “agone”, la competizione verso un traguardo prefissato. E non sarebbe male, considerando che l’agonismo è uno dei più potenti motori di sviluppo che la civiltà occidentale ha ereditato dalla cultura greca.

Il bivio

È ancora con lo sguardo rivolto alla classicità che possiamo riconoscere come il nostro prossimo “agone” sia proprio la disputa divergente tra l’Europa della polis ellenica e quella della civitas romana. Un bivio non solo lessicale, ma di civiltà. La prima risponde al desiderio di creare un’identità europea ben definita. Come nell’Atene di Pericle in cui votavano i cittadini liberi figli di genitori ateniesi, si tratta di stabilire i parametri di appartenenza, confinando tutti gli “altri” in banlieue appena fuori le nostre mura. La civitas romana, invece, è fondata sull’idea che, per lo stato, l’identità sia ininfluente rispetto all’osservanza della legge comune: come ai tempi dell’imperatore Caracalla, persone con culture, fedi e persino lingue diverse possono abitare gli stessi spazi e avere gli stessi diritti, purché perseguano un fine comune di ordine e prosperità.

L’Europa nata dal dopoguerra sembrava aver optato per la civitas nel tentativo di mettersi al riparo dai conflitti millenari tra le sue nazioni. L’aveva fatto rispolverando l’arma del logos: l’impiego più nobile di dialogo e ragione che permette di riconoscere la dignità di identità differenti e di creare relazioni in cui la specificità di ognuno diventa il vantaggio di tutti. Ma oggi appare chiaro che il problema non è tanto definire “cosa scegliere”, quanto trovare la determinazione di “compiere la scelta”.

In assenza di decisioni, la mediazione a oltranza, l’ultimo tentativo di compromesso o, peggio, l’ultimo silenzio in difesa di una storia condivisa sono solo altri modi per mascherare l’incapacità di progettare il futuro. Salvo poi realizzare che il futuro sta già bussando ai nostri confini in maniera sempre più assordante. Confini che non sono nemmeno più quelli tracciati dal filo spinato, o da una fila di cassonetti bruciati nei viali anonimi di una periferia, ma quelli marcati proprio nel punto in cui si è fermata la nostra dignità.

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