Le singole scelte politiche possono cambiare, ma nelle ultime leggi di bilancio le misure che riguardano i giovani sembrano sempre più simili a quelle del Wwf per la salvaguardia delle specie protette. Si cerca di preservarne l’habitat, ovvero il loro potere d’acquisto, li si mette in condizioni di trovare le risorse minacciate da altre specie con le misure sul lavoro e se ne incentiva la riproduzione con bonus per la famiglia.

L’allarme estinzione è in realtà suonato da un pezzo: la fotografia scattata dall’Istat pochi giorni fa non lascia dubbi sul nostro inverno demografico. Nei prossimi tre decenni la fascia di popolazione 15-64 anni potrebbe scendere da 37,7 milioni a 28,9 milioni.

Significa circa un milione di persone in meno tra i 15 e i 34 anni, che va ad accompagnarsi al fenomeno egualmente preoccupante dell’emigrazione: negli ultimi anni 1,8 milioni di italiani nella stessa fascia di età ha lasciato il paese alla ricerca di lavori più remunerati per il proprio titolo di studio.

Se ipoteticamente questa tendenza dovesse continuare potrebbero essere altri 6 milioni da qui al 2052. Ovvio che i governi varino politiche di assistenzialismo per chi vuole rimanere: sono gli ultimi panda.

A preoccuparci dovrebbe essere la perdita non solo di milioni di competenze, contribuenti, e forza lavoro, ma anche della soggettività politica dei giovani, un bene molto più prezioso per chi ha per le mani un paese.

È un vuoto che va oltre quello anagrafico: lo sforzo progettuale con cui la politica rende concreto il progresso di una società viene impostato in assenza di una specifica fascia della popolazione. Proprio quella che dovrebbe esserne più interessata.

Per colmare questa mancanza avere leader under 50 non basta se questi devono rispondere ad un elettorato con lo sguardo inevitabilmente costretto dall’esperienza del passato o, al massimo, dall’urgenza dell’oggi.

Immaginare i giovani in modo “tradizionale” potrebbe rivelarsi distantissimo da come i Millennial rappresentano sé stessi e ancora più alieno dalla GenZ arrivata alla maggiore età.

Così, non disponendo della loro voce e delle loro visioni, la progettualità politica potrà fare per loro le due sole scelte che conosce: mantenere quanto già esiste o cercare di migliorarlo.

Senza idee

Il vuoto che non potrà riempire è quello delle idee nuove che i giovani porterebbero nel dibattito politico, insieme a quell’energia rivoluzionaria, sognatrice, talvolta ingenua e incoerente, ma non per questo meno vitale, che permette la costruzione di un nuovo immaginario collettivo. Il vuoto sono, appunto, le loro utopie.

Già nel 2016 Massimo Cacciari e Paolo Prodi avvisavano del pericolo di un «occidente senza utopie», spiegando che queste non sono profetiche fantasie deliberate, ma l’immaginazione di qualcosa di nuovo e realistico che viene volontariamente costruito a partire dall’esistente.

La politica che non riesce più ad offrire utopie è semplicemente una politica che non è più in grado di offrire cambiamenti.

Qualcosa di molto rischioso nella grave crisi sociale, politica e culturale in cui è precipitato il nostro mondo occidentale. Senza le utopie siamo disarmati di fronte alle sfide globali e interconnesse di oggi che fatichiamo a capire, e ancor meno a risolvere, con gli strumenti del passato.

Lo stesso avanzamento tecnologico è così proiettato verso il futuro che nessuno riesce a immaginare lo stravolgimento che potrà causare alla vita sociale come la conosciamo.

Ci potrebbe riuscire, forse, quella generazione che immagina la potenza di questo cambiamento fin dalla nascita. Solo loro potrebbero essere in grado di governarlo con soluzioni a noi oggi inconcepibili e compito urgente della politica è di chiedergli aiuto trasformandoli nuovamente in soggetti attivi. Possibilmente prima di scoprire che se ne sono già andati via tutti.

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