«Se il lupo massacra indisturbato gli agnelli, la colpa è del guardiano che dormiva. Se per cinque anni questa destra sgovernerà l’Italia e congelerà ogni progresso nell’integrazione europea, la colpa sarà del Pd». Non solo per gli errori della campagna elettorale, scrivevo sul Grand Continent, ma soprattutto perché quel partito «comprime il flusso principale delle domande di cambiamento dentro una politica del tutto inadeguata al fine».

Il dibattito sul Pd che si è aperto su Domani è necessario, ed è eccellente. In particolare, Gianfranco Pasquino scrive che a quel partito manca una cosa essenziale: una cultura politica. Privo di principi, prosegue Nadia Urbinati, nel Pd conta solo «la forza plebiscitaria del leader». Sebbene parli di un «congresso costituente», infatti, Enrico Letta vuole che alla discussione sui «nodi» segua un voto sulla «leadership», non sulla linea o la cultura politica. Ma un partito che a ogni sconfitta si limita a «cambiare cavallo», scrive Urbinati, «non serve a nessuno». La conclusione l’ha tratta Stefano Feltri: «bisogna sciogliere il Pd».

Siccome non si scioglierà da solo, come osserva Mario Ricciardi, qui vorrei discutere un tentativo, nato dentro il partito, di salvarlo dandogli una (nuova) cultura politica. È l’idea di Emanuele Felice, che riprende sia un saggio scritto assieme a Giuseppe Provenzano, ora vicesegretario, sia contributi di uno dei padri del partito, Michele Salvati. Felice ritiene che «le grandi culture progressiste del nostro tempo, cioè quella socialista, quella liberale di sinistra (che non è neoliberale) e quelle più recenti ecologiste e femministe, possono e devono completarsi l’una con l’altra». È dunque questa sintesi che il Pd dovrebbe adottare come cultura politica, che Salvati chiama «liberalismo inclusivo» e Felice e Provenzano invece chiamano «liberalismo sociale».

Culture in dialogo, non coerenti

Liberalismo e socialismo possono dialogare, come hanno fatto per un secolo e mezzo, ma non credo possano saldarsi in una cultura politica coerente, capace di reggere l’organizzazione e l’offerta programmatica di un partito. Lo impedisce la particolare concezione della libertà che sta alla base del pensiero liberale.

La espone un celeberrimo saggio di Isaiah Berlin, del 1958. Egli contrappone la libertà alla «coercizione», ossia all’interferenza nelle scelte individuali: se «mi si impedisce di fare qualcosa che altrimenti potrei fare» – o, specularmente, mi si impone di fare ciò che non vorrei – «io non sono libero».

Questa è la visione che ci consegna la tradizione liberale, ed è tanto egemonica nelle nostre società da essere spontanea, e da restare spesso implicita. Bisogna invece esaminarla, per capirne le implicazioni. Mi limito a una, l’avversione per l’azione pubblica, che è esiziale per l’operazione che Felice, Provenzano e Salvati suggeriscono.

Secondo questa concezione della libertà ogni legge o azione pubblica è coercizione, perché interferisce nelle nostre scelte (se il limite è 50 all’ora, non posso andare a 60; se devo pagare le tasse, non posso tenermi tutti i miei guadagni; se per aprire una finestra devo avere un permesso, non posso farlo liberamente). Quindi ogni legge è un limite alla libertà individuale: limiti spesso giustificati, che i liberali tipicamente accettano, ma limiti nondimeno. La tensione col pensiero socialista – che assegna all’azione pubblica il compito, per esempio, di ridurre le disuguaglianze – è dunque forte, e a rigore irriducibile.

In particolare, come ricorda un lucido e autorevole pensatore liberale, Francis Fukuyama, le «regole istituzionali del liberalismo proteggono i diritti di tutti, incluse le attuali élite che sono restie a cedere ricchezza o potere». Questo è un serio ostacolo per il contrasto delle disuguaglianze economiche e delle instabilità sistemiche che la rivoluzione neo-liberale ha generato, ed è un ostacolo che discende direttamente dal cuore del pensiero liberale: ossia dalla sua concezione di libertà.

Esiste un’altra concezione, quella repubblicana, che potrebbe invece facilitare il tentativo di costruire una società più equa, proprio perché risponde meglio all’aspirazione umana all’indipendenza. Ne ho scritto su Domani e sull’ultimo numero del Mulino. Qui volevo solo criticare la sintesi tra liberalismo e socialismo. Se il Pd vuole darsi una cultura politica si rifaccia «ai grandi filoni delle culture politiche europee», come suggerisce Ricciardi, e ne scelga una, dopo una vera battaglia di idee: liberalismo o socialismo (o repubblicanesimo).

© Riproduzione riservata