Sono passati dieci anni dall’inizio della guerra in Siria. A tratti ci siamo sentiti toccati da vicino da questo conflitto, specie con le immagini dei rifugiati che cercavano di raggiungere i paesi europei. Ma come sta la popolazione rimasta in Siria? Male, e da quest’anno peggio. Secondo il World Food Programme, oltre 12 milioni di siriani (il 70 per cento della popolazione residente) sono in stato di insicurezza alimentare; 4,5 milioni lo sono diventati quest’anno. Oggi un chilo di carne costa un quarto dello stipendio medio di un impiegato, è come se da noi la carne costasse 700 euro al chilo. I beni primari come il riso, lo zucchero o la benzina sono di fatto contingentati: lo stato garantisce dei quantitativi minimi a dei prezzi calmierati, ad esempio un chilo di riso al mese per persona o 25 litri di benzina a settimana per macchina; quantità maggiori possono essere acquistate sul mercato libero, ma a dei prezzi spesso proibitivi per la maggior parte delle persone. Il problema è che il paese, già prostrato da anni di guerra civile, è stato colpito in rapida successione da tre shock negativi, ciascuno in grado di mettere in ginocchio economie ben più solide.

Le sanzioni americane

Innanzitutto nel giugno dello scorso anno c’è stato l’inasprimento delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti con il Caesar Act voluto dall’amministrazione Trump e assecondato dall’Unione europea. L’obiettivo delle sanzioni era di indebolire il regime di Assad, ma di fatto hanno avuto l’effetto di aggravare la crisi umanitaria, come dichiarato recentemente dalle Nazioni Unite, e di bloccare la ricostruzione del paese, che potrebbe iniziare sfruttando il forte calo dell’intensità del conflitto bellico.

La particolarità di queste sanzioni è che non si applicano solo a cittadini e aziende americane, ma si estendono anche a quelle di paesi terzi, come i paesi europei e il Libano, che intrattengono rapporti economici e finanziari con la Siria classificati come proibiti.

Le sanzioni hanno avuto un forte impatto economico colpendo in particolare il settore delle costruzioni e infrastrutture, quello energetico e quello finanziario.

Tuttavia non si applicano alla parte nord-est del paese controllata dai curdi, dove c’è una presenza militare americana e dove imprese americane stanno estraendo petrolio. Inoltre, le sanzioni hanno portato a un deprezzamento della sterlina siriana rispetto al dollaro di oltre il 70 per cento e questa perdita di valore della moneta ha innescato un drastico aumento dei prezzi che ha coinvolto anche i principali beni alimentari.

La crisi del Libano

In secondo luogo, la crisi finanziaria ed economica in Libano, esplosa alla fine del 2019, ha avuto forti ripercussioni sulla Siria. Il sistema finanziario siriano ha un legame molto stretto con quello libanese da cui dipende per l’intermediazione dei flussi di capitale con l’estero. Molte imprese e famiglie siriane hanno depositi in valuta per diversi miliardi di dollari presso le banche libanesi, ma il blocco generale dei depositi in Libano ha impedito l’accesso ad un’importante fonte di liquidità. La crisi libanese si è tradotta anche in una riduzione della domanda per i prodotti siriani, le cui esportazioni dipendono in buona parte dagli acquisti di cittadini libanesi. A tutto questo nell’agosto 2020 si è aggiunta la terribile esplosione nel porto di Beirut che ha distrutto il silos più importante del paese, diminuendo la disponibilità di grano anche in Siria.

L’arrivo del Covid-19

Il terzo shock è stato l’arrivo del Covid-19, un ulteriore elemento di fragilità che si è inserito in una situazione già ingestibile e di piena emergenza. Dopo dieci anni di guerra il sistema sanitario è ormai allo stremo: poco più della metà degli ospedali è operativo e circa il 70 per cento del personale medico ha lasciato il paese. La pandemia avrebbe potuto avere un esito tragico, ma il relativo isolamento internazionale e la scarsa mobilità interna hanno contribuito a contenere la diffusione del virus e ridotto gli effetti sanitari. Tuttavia gli effetti economici si sono fatti sentire, non solo per le chiusure, ma anche per il drastico calo delle rimesse degli emigrati (stimato tra il 50 per cento e l’80 per cento) dovuto sia alla perdita di lavoro nel loro paese di residenza, sia al blocco degli spostamenti internazionali che ha impedito trasferimenti in contante.

Ciò nonostante, una delle conseguenze più rilevanti del Covid-19 è stata la disattenzione internazionale verso la crisi siriana. Con il mondo impegnato a combattere la pandemia, si è trascurato l’aggravarsi della situazione umanitaria. Sono mancati il supporto economico, l’attenzione mediatica, e lo sforzo politico per cercare di risolvere una crisi che si protrae da troppo tempo.

Per fronteggiare l’emergenza alimentare e stabilizzare l’economia diventa sempre più urgente e necessaria una risposta da parte della comunità internazionale diretta a eliminare (o almeno ridurre) le sanzioni, incrementare lo stanziamento di aiuti e agevolare l’attività delle agenzie internazionali, spesso ostacolate da interessi geo-politici. Tuttavia, i segnali più recenti non sono incoraggianti. Le Nazioni unite hanno dichiarato che servono 10 miliardi di dollari nel 2021 per arginare la crisi umanitaria e sostenere i rifugiati nei paesi limitrofi, ma alla conferenza di Bruxelles di marzo i paesi donatori si sono impegnati per 4,4 miliardi, meno della metà di quanto servirebbe e un miliardo in meno degli aiuti dello scorso anno, nonostante l’aggravarsi della situazione.

Occasione G20

Spesso si dice che l’Italia dovrebbe avere un ruolo di leadership nella politica estera nel Mediterraneo, ma sulla crisi siriana ha avuto un ruolo molto defilato. Sarebbe opportuno che l’Italia sfruttasse la presidenza del G20 di quest’anno per gettare le basi di una conferenza internazionale sulla Siria, con l’obiettivo di affrontare non tanto il tema di aiuti e donazioni (per quello c’è già la conferenza di Bruxelles), ma quello delle sanzioni creando un dialogo politico per risolvere la crisi. L’Italia ha una ricca storia di legami commerciali e culturali con la Siria, priva di sfaccettature coloniali, che la renderebbero un mediatore internazionale credibile e ben accetto. Nell’estate del 2019 uno di noi era in viaggio in Siria. Durante una gita al Krak dei Cavalieri a un certo punto si sente il classico vociare degli italiani in gita.

C’era un gruppetto di toscani, sembrava un miraggio. Noi eravamo stupiti di trovare loro e loro erano stupiti di trovare noi. Una piccola onlus fiorentina guidata dal signor Saverio si era attrezzata, fra mille difficoltà, per organizzare viaggi di turismo solidale in Siria come messaggio di pace; probabilmente era l’unico in grado di portare occidentali in visita nella regione. Sono quelle cose che quando le vedi ti danno un senso di speranza. A livello micro, quando si tratta di iniziative basate su generosità e caparbietà personale l’Italia arriva prima, ma quando si deve passare a livello macro e guidare proposte internazionali non ce la facciamo. Varrebbe la pena cogliere l’occasione del G20 per provarci, basterebbe avere la volontà politica di farlo e ci sono in ballo 20 milioni di persone.

 

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