L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato l’11 luglio come giornata del ricordo, ma sarebbe stato più giusto definirla della vergogna verso chi andava protetto
Possono le parole “protezione” e “genocidio” stare in un’unica frase? Sì. Ci sono state nel modo più tragico trent’anni fa in Bosnia, in piena Europa. Sono unite, e lo resteranno per sempre nella memoria dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime, dal genocidio più veloce della storia: oltre 10.000 morti nel giro di una settimana, a partire dall’11 luglio 1995.
Srebrenica, nella Bosnia nordorientale, in quell’estate contava 42.000 abitanti, 36.000 dei quali profughi da altre zone sottoposte a pulizia etnica. Era assediata da tre anni dalle forze serbo bosniache. Abitanti e sfollati confidavano nella “protezione” internazionale, stabilita in ritardo dalla risoluzione 819 approvata il 16 aprile 1993 dal Consiglio di sicurezza.
Srebrenica era a maggioranza musulmana ma si trovava in quella parte della Bosnia che, sulle carte militari ma anche già su quelle della diplomazia, sarebbe spettata alla Republika Srpska, l’entità con cui le autorità di Belgrado, capitale dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia (comprendente Serbia e Montenegro), avevano reagito al referendum per l’indipendenza della Bosnia del 1992.
Nelle capitali occidentali era chiaro che la guerra sarebbe finita con una divisione della Bosnia corrispondente alle maggioranze presenti (pazienza se a seguito di trasferimenti forzati o di altri crimini). Srebrenica era il principale ostacolo a questa soluzione. Non ci si immaginava a che prezzo sarebbe stato rimosso. O forse sì.
La “protezione” di Srebrenica era affidata a un battaglione olandese di 600 caschi blu: il Dutchbat 3, guidato dal bonario colonnello Thom Karremans. L’attacco finale da parte delle forze del generale serbo-bosniaco Ratko Mladić iniziò il 6 luglio 1995. La mattina del 10 luglio Karremans chiese appoggio aereo alla Nato. Lo ottenne solo il giorno dopo: alle 14,40 dell’11 luglio due missili colpirono due tank serbi già fuori uso. L’impegno della comunità internazionale per la “zona protetta” si esaurì così.
Alle 16.15 dell’11 luglio, di fronte alle telecamere, Mladić proclamò tronfio l’avvenuta conquista di Srebrenica. Poco dopo Karremans fece chiudere i cancelli del compound dell’Onu dove si erano riversate alcune migliaia di civili. Molti di più rimasero fuori e si avventurarono per le montagne, dove furono sterminati. Non andò meglio ai maschi rifugiatisi nel compound: quelli «in età da combattimento» vennero consegnati da Karremans a Mladić. Non mancò un brindisi, sempre a favore di telecamere.
In meno di una settimana migliaia di uomini musulmani vennero passati per le armi. La prima commissione d’inchiesta, guidata dall’ex primo ministro polacco Tadeusz Mazowiecki, fissò inizialmente il numero dei morti a 7800. Negli anni successivi sarebbe emerso che a mancare all’appello erano oltre 10.000 persone.
«Srebrenica è un nome che mette insieme immagini che preferiremmo non vedere mai: donne, bambini e anziani costretti a salire su autobus diretti verso destinazioni ignote; uomini separati dalle loro famiglie, privati dei loro effetti personali; uomini in fuga, uomini fatti prigionieri, uomini che non sarebbero più stati rivisti, uomini (non tutti) ritrovati morti; corpi uno sopra l’altro nelle fosse comuni; cadaveri con gli occhi bendati e mani e piedi legati; spesso, corpi smembrati e non identificati».
Questa citazione è tratta dalla prima sentenza per il genocidio di Srebrenica emessa dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia: il 2 agosto 2001 Radislav Krstić, vice di Mladić, è stato condannato a 46 anni, ridotti a 35 in appello.
Per le due sentenze più importanti, nei confronti del capo politico dei serbi di Bosnia, Radovan Karadžić, nonché di Mladić, si è dovuto attendere a lungo: ergastolo definitivo sia per il primo, nel 2019, che per il secondo, nel 2021.
Si è dedicato a Srebrenica anche il tribunale che si occupa di stati e non di individui: nel febbraio 2007 la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto che era avvenuto un genocidio a opera delle forze della Republika Srpska e che la Serbia, pur non avendolo materialmente commesso, era venuta meno all’obbligo di prevenirlo.
Il 23 maggio 2024 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato l’11 luglio “Giornata internazionale del ricordo del genocidio di Srebrenica”. Sarebbe stato più giusto definirla «della vergogna nei confronti di chi non volemmo proteggere dal genocidio».
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