Il dibattito delle ultime settimane sul costo eccessivo degli affitti nelle città universitarie ha generato opinioni e proposte di soluzioni. Anche se contrastanti tra loro, di solito sono legittime. Per esempio, si può pensare che un tetto agli affitti sia la soluzione, così come sostenere che creerebbe grandi distorsioni sul mercato.

C’è però almeno un argomento che merita di essere confutato perché privo di ogni fondamento: l’idea secondo cui andare a studiare fuori sede sia un capriccio di giovani borghesi viziati, che potrebbero tranquillamente restare nella loro città di origine, ma decidono di trasferirsi a Roma, Milano o Bologna solo perché è cool. È un’opinione che si basa sul fatto che le università sarebbero tutte uguali, con la stessa qualità di formazione, strutture, network con le aziende, ecc. Ma questa convinzione non ha fondamento. Anzi, è sintomo di una mentalità piuttosto provinciale sul funzionamento dell’istruzione.

Il diverso valore di una laurea in un ateneo piuttosto che in un altro è un’evidenza con cui ogni studente universitario a un certo punto si scontra durante la propria carriera accademica e lavorativa.

Una prima ragione è che sono i professori stessi a voler insegnare nelle università più prestigiose. Negli atenei migliori – o perlomeno percepiti come tali -, il numero di accademici che vuole entrare a far parte dello staff è superiore, con un effetto positivo sulla qualità della selezione. Banalmente, ad Harvard i professori non sono bravi solo perché l’università fa un buon lavoro nella selezione, ma anche perché può selezionare tra candidati di altissimo livello. Lo stesso non si può dire spesso per un’università di provincia.

Non è nemmeno scontato che si insegnino le stesse cose in università diverse. Per quanto ci sia stato uno sforzo non indifferente per omologare i percorsi di studio a livello nazionale, ciascun corso ha le sue specificità. Dalla scelta degli esami opzionali, all’effettivo completamento dei programmi (un po’ come con il fantomatico programma di storia alle superiori che non si finiva mai), fino all’obbligo o meno di svolgere attività di tirocinio o di assistenza alla ricerca.

Ci sono poi altre ragioni per considerare lo studio fuori sede, che vanno oltre la semplice qualità dell’insegnamento. Per esempio, i diversi atenei italiani non riescono a garantire gli stessi rendimenti in termini di ricerca di lavoro. Secondo gli ultimi dati Almalaurea, solo il 56,1 per cento dei laureati magistrali all’Università della Calabria lavora a un anno dal conseguimento del titolo, contro il 64,4 per cento di chi ha concluso la Statale di Milano. Questo significa che la qualità dell’insegnamento è peggiore in Calabria rispetto a Milano? Non necessariamente, ma il diverso contesto socioeconomico in cui si trovano i due atenei fa sì che ci sia una forte differenza nei risultati sul mercato del lavoro (e la differenza si vede anche nelle retribuzioni medie).

Ai vantaggi più oggettivi, se ne aggiungono altri legati alla propria formazione umana e personale. Vivere da fuori sede, per esempio, significa uscire per la prima volta di casa e imparare a gestire la propria vita autonomamente. È insomma un’ottima palestra per imparare a cavarsela da soli. In un paese in cui in media si va a vivere da soli a 30 anni (contro una media di 26,5 in Unione europea, 23,6 in Francia e Germania e 19 in Svezia), forse la vita da fuori sede non è esattamente un fenomeno da disincentivare. E sarebbe stupido pensare che la ricerca di maggiore indipendenza da parte di un giovane adulto sia un semplice capriccio.

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