I testi-zombie sono quelli sepolti nei file dei social, concepiti nel passato ma pronti a riemergerne per azzannarti nel presente. Il New York Times lo racconta con tre storie.

Alexi McCammond, 27 anni, afroamericana, retroscenista politica di Washington, viene chiamata a dirigere Teen Vogue, ma rinuncia perché, proprio nei giorni in cui sei donne asiatiche erano uccise in una strage, i nuovi colleghi scovano un paio di tweet in cui lei, diciassettenne, definiva «asian», asiatici, gli occhi a fessura del risveglio e bollava «asian» anche l’insegnante che le aveva assegnato un voto basso. Neera Tanden, attivista politica, chiamata da Biden a gestire staff e budget in Casa Bianca, si è dimessa perché, da attivista di sinistra, aveva dato a suo tempo di «peggiore», «imbroglione» o «Voldemort» a qualche senatore. James Gunn, regista, fu licenziato per un tweet vecchio di dieci anni in cui giocava di paradosso accostando la pedofilia all’11 settembre.

Il testo-zombie è micidiale perché si sgancia dal contesto originario, tanto più essenziale per cogliere lo spirito di un tweet che per l’obbligo di concisione è prossimo alla chiacchiera da bar, basata su metafore energiche, postura polemica, volatili battute. Con la fondamentale differenza che queste si dissolvono appena pagato lo scontrino mentre il testo social resta in rete, per sempre e indistruttibile. Per questo il New York Times suggerisce che i genitori che donano uno smartphone ammoniscano la prole a smorzare quel che scrive e a praticare fin dai primi post l’arte social e antichissima dell’ipocrisia.

Vittime sacrificali

Il problema nasce, a ben vedere, dal rapporto feticistico con le singole parole che andrebbero invece prese con le molle a partire dallo sforzo di mettersi nei panni di chi le ha pronunciate. Ma questo è difficile che accada perché, in assenza d’altre barricate, sono i simboli a costituire il campo dello scontro tra tribù politiche e sociali. In effetti, ogni mondo subalterno che prenda coscienza di sé stesso si accorge che la condizione da cui intende liberarsi è rispecchiata dalla lingua dominante. Quindi si comprende la spinta a denunciare quelle sedimentate parole e strutture di linguaggio.

Ma qui il ghiaccio si fa sottile e si rischia di sostituire le chiacchiere alle cose, nell’illusione di invertire la sequenza causa-effetto e di orientare, insieme alle parole, anche i rapporti tra persone. Poi accade che il “green” più opportunistico che ci sia cominci a tracimare oppure di finire presi nella diatriba per la desinenza che, per presidiare le frontiere della diversità, dovrebbe distinguere l’assessore femmina dal maschio. Col rischio, anzi la certezza, che la dismisura tra il mezzo e il fine travolga tutto nel ridicolo.

Negli Stati Uniti, dove la comunicazione la prendono sul serio, hanno unito i trattini che collegano il soffocamento di George Floyd ai monumenti che negli stati secessionisti celebrano i campioni della guerra civile e del traffico di schiavi. Il nesso è autentico, ma è evidente che non si potrà mai volgere la Storia all’indietro abbattendo i segni delle tirannie sanguinarie che l’hanno popolata, perché quello è comunque il Passato che c’insegue nel Presente. Mentre la partita vera si gioca su terreni più pratici (diritti, condizioni di reddito e lavoro, istruzione e così via) inghiottendo le parole orrende (nigger) e le pietre scolpite in un contesto di lettura attuale, che relativizzando le riesce a governare. A Roma, tanto per dire, nel Foro che ora si chiama Italico, s’innalza la stele con le scritte Dux e Mussolini. È bruttarella e un po’ pacchiana, ma nessuno si sogna che spianandola CasaPound troverebbe meno nessi nel paese.

In altri termini, le strade del bigottismo sono sì infinite, ma hanno sempre in comune l’assumere parole, gesti e all’occorrenza anche le pietre, come trincee sacre da difendere col sangue (talvolta autentico e sempre altrui). I tre sventurati in Usa, di cui si raccontava, sono vittime sacrificali di quest’andazzo della società mediatizzata, spinta dagli eserciti retribuiti a cottimo per dare la caccia alle colpe di cui scrivere.

Resistenza individuale

In Italia questa spinta rigorista pare minore, forse perché, come insegna Flaiano, ci si conosce tutti fra di noi e nessun entusiasta riesce a farsi prendere sul serio. Ma magari ci sbagliamo e qualche fulgida carriera verrà presto stroncata da una scemenza scritta dentro un social anni prima.

Un rimedio a tanto malanno non esiste e altro non rimane che la resistenza individuale. Che implica prontezza e zero reticenza nell’ammettere gli errori quando le idee sono mutate, ma fermezza, come Don Giovanni con il Commendatore, nel non concedere mai e poi mai al bigottismo la formula «Mi pento» e l’agognato annichilimento del ribaldo.

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