L’atto con il significato politico più profondo compiuto dal presidente del consiglio Giorgia Meloni all’insediamento del suo governo è stato quello di cambiare il nome del Ministero dell'Istruzione in Ministero dell’Istruzione e del Merito. La Meloni ha voluto inserire la parola “merito” come a rivendicarne il possesso, come a sottolineare che il merito è un concetto caro alla destra. Il neoeletto ministro dell’Istruzione e del Merito, il professor Giuseppe Valditara, si è affrettato a spiegare il motivo di quel cambio di denominazione: «Perché la scuola oggi è una scuola classista, non è la scuola dell’eguaglianza perché non è una scuola del merito, e non aiuta i ragazzi a realizzarsi costruendosi una soddisfacente vita adulta».

I buoni propositi e il classismo

LaPresse / Roberto Monaldo

Riassumendo, il pensiero della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e della destra è questo: «Gli esseri umani nascono afflitti da disuguaglianze sociali, ma se a scuola studi, ti impegni e sei bravo, allora riuscirai ad emergere, e quel che conquisterai sarà tutto merito tuo».

Questa affermazione, che sembra alimentata da buoni propositi di egualitarismo sociale, in realtà nasconde un pensiero profondamente classista ed elitario, degno di una destra conservatrice come quella che esprime il governo italiano attuale. Su un tema così importante come il concetto di merito, la sinistra italiana è stata zitta: del resto da tempo ha smesso di elaborare un pensiero politico autonomo e nuovo, e si è frantumata in un rissoso comitato di gruppi di potere affaccendati solo a elaborare strategie e alleanze elettorali di breve periodo.

Invece, nei paesi dove ancora una sinistra degna del nome esiste – come negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania– le forze progressiste stanno da tempo discutendo su cosa sia il merito e se sia un giusto strumento di selezione sociale. Nei paesi dove il dibattito politico è ancora serio, i rappresentanti e gli intellettuali di sinistra hanno incorporato nelle loro riflessioni le ultime conoscenze acquisite nei campi più disparati – dalle neuroscienze all’economia, dalla sociologia alla filosofia sociale: e molti sono giunti alla conclusione che una società in cui il merito è lo strumento privilegiato di selezione sociale non sia giusta.

Negli Usa, Michael Sandel, un illustre filosofo e docente di teoria del governo all’Università di Harvard, vicino al partito democratico americano, ha scritto un libro dal titolo “La tirannia del merito” che ha molto contribuito al dibattito sul tema.

Sandel sostiene che stiamo vivendo in una “era del merito”, in cui persino politici progressisti come Tony Blair, Barack Obama o altri leader di sinistra hanno promosso l’idea che il merito sia la migliore soluzione alle sfide poste dalla globalizzazione, dalle disuguaglianze e dalla deindustrializzazione, ma così facendo hanno prosciugato i valori della classe lavoratrice occidentale con conseguenze disastrose per il bene comune.

Questo modo di pensare ha dato origine a un individualismo di sinistra catastrofico. «Ci dicono che la soluzione ai problemi della globalizzazione e delle disuguaglianze – dice Sandel - è che chi lavora duro e segue le regole alla fine riesce a emergere e a salire nella scala sociale là fino a dove i suoi sforzi e il suo talento lo conducono. Io la definisco "la retorica della scalata sociale”.

È quasi diventato un dogma assoluto. Il centro-sinistra dice: se riusciremo ad avere condizioni eque di partenza per tutti, allora tutti avranno chance identiche di farcela. E chi riesce a emergere per il suo talento, il suo duro lavoro e i suoi sforzi allora si merita il posto che alla fine occuperà nella società, se lo sarà guadagnato».

E ovviamente, il miglior modo per salire nella scala sociale è avere un’educazione superiore - su questo destra e sinistra sono d’accordo. Come diceva Tony Blair: «Ci vuole educazione, educazione e ancora educazione».

Ma Sandel e altri intellettuali di sinistra, tra i quali il filosofo americano John Rawls, sostengono che quest’idea favoleggiata delle “eguali condizioni di partenza” rimane una chimera. In tutto il mondo occidentale gli studenti che frequentano le università più prestigiose- come Harvard, la Sorbona o l’Università Normale di Pisa- sono convinti che il loro successo sia merito dei loro sforzi, ma due terzi di loro provengono da famiglie che appartengono al quinto più alto nella scala dei redditi. In quasi tutti i paesi occidentali la mobilità sociale è ormai ferma da decenni, come dice Sandel: «Gli americani nati da genitori poveri tendono a rimanere poveri anche da adulti». In Italia, un paese gerontocratico e immobile, va ancora peggio che non negli Stati Uniti.

Perché questo accada ce lo spiegano in parte le neuroscienze. Ormai è noto che gran parte delle capacità cognitive e dei talenti di ogni essere umano sono ereditari, cioè ci sono trasmessi dai nostri genitori attraverso il patrimonio genetico: ovvero, se hai genitori bravi in matematica è molto probabile che anche tu abbia questa disposizione. Ma ereditare geni che ti permettono di primeggiare in un determinato campo è frutto del caso e non certo un tuo merito.

E poi, un filone di rivoluzionari studi neuroscientifici inaugurati a partire dagli anni ’70 del secolo scorso da William Greenough e Christopher Wallace, e portati avanti da altri come Eric Kandel e Steven Pinker, hanno minato alle basi la cattedrale del merito. Greenough e Wallace hanno dimostrato che ratti che in tenera età ricevevano scarse cure parentali e che crescevano in una gabbia con pochi oggetti a disposizione, cioè con pochi stimoli – si potrebbe dire in un ambiente povero- sviluppavano un cervello con meno neuroni e più povero di sinapsi, e da adulti possedevano capacità cognitive peggiori rispetto a ratti che in tenera età avevano ricevuto più cure parentali ed erano cresciuti in una gabbia ricca di stimoli – cioè in un ambiente ricco.

La cura

Ricerche simili sono state condotte sull’uomo, e hanno portato alle stesse conclusioni. Chi nei primi tre anni di vita cresce in un ambiente o in una casa povera di stimoli – di oggetti e di libri, per esempio-, e riceve meno cure perché i genitori sono spesso assenti, da adulto sviluppa capacità cognitive inferiori rispetto a chi cresce in un ambiente o in una casa ricca di stimoli – piena di libri o di stimoli intellettuali per dire-, e riceve più cure da genitori ed altri caregiver. Nei primi tre anni di vita - una fase dello sviluppo che viene detta fase critica – ogni essere umano deve ricevere gli stimoli necessari che permettano al suo cervello, che in questa fase è estremamente plastico, di formare nuove sinapsi e perciò di apprendere funzioni motorie fondamentali -come la deambulazione e i movimenti fini delle mani-, e funzioni cognitive essenziali – quali il linguaggio, il pensiero, le capacità emotive.

Passati quei tre anni cruciali, le capacità di apprendimento del nostro cervello diminuiscono enormemente, perciò è critico ed essenziale che in quella fase dello sviluppo il nostro cervello sia bombardato da stimoli: se mancano ne deriveranno deficit motori, emotivi e cognitivi impossibili da eliminare per il resto dell’esistenza. In altre parole, chi nei primi tre anni di vita cresce in un ambiente povero sarà svantaggiato e avrà un cervello – e capacità cognitive - meno sviluppate per tutto il resto della sua vita. E anche nascere in un ambiente, ovvero in una famiglia, ricca di stimoli non è sicuramente merito tuo, ma piuttosto frutto della tua fortuna.

Il successo sociale

Nonostante tutto ciò, la sinistra liberale sostiene questo astratto concetto di meritocrazia come equa misura del successo sociale da più di trent’anni. E c’è di più. Se anche la meritocrazia perfetta esistesse sarebbe lo stesso dannosa, sostengono gli intellettuali progressisti come Sandel. “C’è un lato oscuro nella meritocrazia come viene propugnata anche dalla sinistra”, dice Sandel. “Se la meritocrazia è giusta ciò significa che quelli che non riescono ad ascendere la scala sociale non possono dare la colpa a nessuno se non a sé stessi.” Le elite di centro sinistra liberale hanno abbandonato i vecchi valori di solidarietà e giustizia sociale e hanno assunto il ruolo di moralizzatori, sono diventati, sostiene Sandel, dei “maestri di vita” i quali ci insegnano che in questa società ogni lavoratore è un individuo che deve farcela da solo.

Il problema è che questa etica del successo permea incontrastata la nostra cultura. Il messaggio, sostiene Sandel, è «che chi sta ai vertici della scala sociale si merita il posto che occupa, ma anche che chi sta in basso nella scala sociale si merita quel che ha. Non si è sforzato abbastanza, non ha preso una laurea universitaria, e via discorrendo». Se non ce la fai è colpa tua, insomma: che non è quello che dovrebbe sostenere una forza di sinistra, e soprattutto non è quello che ormai ci dicono le scoperte più recenti delle neuroscienze, della psicologia e dell’economia.

Un tempo i politici della sinistra provenivano perlopiù dalle classi lavoratrici e i loro partiti rappresentavano gli interessi dei lavoratori, ma negli ultimi decenni i politici di sinistra provengono sempre più dalle classi medie borghesi, e i loro partiti hanno finito per abbracciare gli interessi dei nuovi ceti professionali in cui essi si riconoscono. E invece hanno abbandonato i colletti blu, gli operai e i lavoratori, che hanno invitato a compiere una scelta senza scampo: migliorarsi oppure sopportare il peso del loro fallimento. “La ribellione populista degli ultimi anni ha rappresentato una rivolta contro la tirannia del merito portata avanti da coloro che si erano sentiti umiliati dalla meritocrazia e dal suo intero progetto politico” sostenuta colpevolmente anche dalle forze di sinistra, afferma Sandel.

I sostenitori

Le persone che hanno votato per la destra, che hanno sostenuto Trump negli Stati Uniti e che ora sostengono Giorgia Meloni qui in Italia, lo hanno fatto soprattutto per il loro profondo senso di insicurezza e per il risentimento nei confronti delle elite. La colpa delle sinistre è di avere abbracciato in maniera acritica i valori del mercato e della meritocrazia preparando in questo modo l’avvento delle destre.

Il solo modo per uscire da questa crisi, sostengono Sandel e altri pensatori di sinistra, è di abbandonare questa ideologia meritocratica che finisce per dividere la società tra vincenti e perdenti. Eppure, la pandemia di COVID-19 ci dovrebbe aver mostrato in maniera lampante quale valore abbia il lavoro umile, e sottopagato. “Dopo la pandemia dovremmo iniziare a dibattere seriamente sulla dignità del lavoro, su come premiare il lavoro sia in termini di salari ma anche in termini di stima sociale. Dovremmo aver capito quanto profondamente noi dipendiamo non solo dall’opera dei dottori e degli infermieri, ma anche da quella dei lavoratori che fanno le consegne, dei magazzinieri, dei camionisti, delle badanti, dei lattai, dei contadini, delle maestre d’asilo, degli insegnanti. Questi ultimi forse non hanno gli stipendi più alti ma sono lavoratori cruciali per le nostre esistenze.”

Insomma, la sinistra dovrebbe riflettere se la scuola e l’università siano davvero un luogo adatto per giudicare chi merita e chi no. Dovrebbe invece proporre di investire maggiormente per garantire salari migliori e un welfare più dignitoso a tutti quei lavoratori che non hanno avuto accesso all’università o che svolgono lavori cosiddetti umili. Dovrebbe proporre una tassazione progressiva per rimediare almeno in parte alle disuguaglianze, dato che non tutti quelli che occupano posizioni prestigiose e hanno salari altissimi se li sono guadagnati grazie esclusivamente ai loro meriti, ma in gran parte grazie alla loro sorte e alla loro posizione sociale. Conclude Sandel: «Bisognerebbe coltivare la virtù civica dell’umiltà, che in questo momento è un antidoto necessario alla ubris meritocratica che continua a dividerci».

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