La sentenza mette a nudo ritardi, pregiudizi e inerzie del sistema giudiziario italiano. La donna aveva denunciato nel 2018 aggressioni, minacce e violenza economica ma, nonostante certificati e testimonianze, il tribunale aveva rigettato la sua richiesta di protezione e assolto l’imputato perché non era dimostrata la condotta abituale. Una lettura che, secondo i giudici di Strasburgo, ha banalizzato la gravità dei comportamenti denunciati. Una pronuncia che conferma l’importanza dell’azione politica e giudiziaria femminista nel portare alla luce le responsabilità strutturali dello stato
Con la sentenza Scuderoni c. Italia, depositata il 23 settembre 2025, la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione europea, accertando che lo stato non ha protetto in modo adeguato Valentina Scuderoni, avvocata penalista, dalla violenza domestica.
È una decisione dirompente che mette a nudo ritardi, pregiudizi e inerzie del sistema giudiziario italiano e che porta la firma dell’avvocata Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, che da oltre trent’anni promuove politiche di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne.
La vicenda
La ricorrente aveva denunciato nel 2018 aggressioni fisiche, minacce, molestie e violenza economica. Nonostante certificati medici e testimonianze, il tribunale di Civitavecchia, in sede civile, rigettò la richiesta di ordini di protezione; in sede penale assolse l’imputato, sostenendo che i fatti, pur spiacevoli, non fossero sufficienti a dimostrare una condotta abituale di maltrattamenti, ma soltanto episodi isolati e riconducibili a un conflitto legato alla separazione.
Le ingiurie, le privazioni di sonno, le minacce e perfino un episodio di violenza fisica che costrinse la ricorrente a richiedere le cure mediche vennero qualificati come “dispetti”, non come atti di un sistema di sopraffazione, dunque privi dell’elemento di abitualità richiesto dal reato di maltrattamenti in famiglia. Una lettura che, secondo i giudici di Strasburgo, ha banalizzato la gravità dei comportamenti denunciati e li ha ridotti a mere “liti familiari”, con l’effetto di screditare la credibilità della vittima, stigmatizzata peraltro anche per il fatto di essere un’avvocata e dunque a conoscenza degli strumenti giuridici esistenti nell’ordinamento per tutelare i propri diritti. Il pubblico ministero rifiutò di appellare la sentenza di assoluzione, condividendone le motivazioni.
Dinanzi alla Corte europea, la ricorrente ha denunciato la violazione degli articoli 3 e 8 Cedu, ossia degli obblighi dello stato di prevenire trattamenti inumani e degradanti e di rispettare la vita privata, che significa anche non stigmatizzare con stereotipi sessisti le scelte delle donne che rivendicano il diritto di vivere libere dalla violenza. La Corte le ha dato ragione, stabilendo che le autorità italiane non hanno rispettato l’obbligo positivo di proteggere le vittime di violenza domestica, che richiede indagini rapide, autonome e approfondite, nonché misure immediate e proporzionate al rischio.
Nel caso specifico, Differenza Donna aveva già segnalato la pericolosità concreta dell’ex compagno attraverso il protocollo SARA, strumento di valutazione del rischio introdotto in Italia dall’associazione e recentemente aggiornato nell’ambito del progetto europeo Future. Eppure, nulla è stato fatto, lasciando la ricorrente in un limbo giuridico e personale.
Inerzie e stereotipi
Richiamando il precedente Kurt c. Austria, la Corte ha ricordato che in casi di violenza domestica «le autorità devono reagire immediatamente alle denunce, valutare in modo proattivo il rischio reale e adottare misure preventive adeguate». Inoltre, ha stigmatizzato la persistenza di stereotipi sessisti nelle decisioni interne: la tendenza a ridurre la violenza a conflitto, a ritenere entrambe le parti corresponsabili, a diffidare della parola della donna che lascia la relazione, interpretandola come vendicativa. Questi pregiudizi hanno portato a un’assoluzione che non ha avuto alcun effetto dissuasivo sulla violenza.
La Corte europea ha riconosciuto che il quadro normativo italiano – dal “Codice Rosso” alle misure cautelari – è teoricamente adeguato, ma ha sottolineato come la prassi resti segnata da ritardi e minimizzazioni. In questo caso sono passati due mesi prima che la denuncia fosse registrata e quattro anni per arrivare a una sentenza di assoluzione, con ben quattro giudici diversi a occuparsi del processo. Una gestione che ha esposto la ricorrente a un «pericolo reale e immediato» e ha violato i suoi diritti fondamentali.
La vittoria a Strasburgo è il frutto della determinazione della ricorrente insieme al lavoro strategico di Differenza Donna accanto alle donne che fanno esperienza di violenza. Non è un caso isolato: già nel 2022 l’associazione aveva ottenuto la condanna dell’Italia davanti al Comitato CEDAW (caso A.F. c. Italia) e alla stessa Corte EDU (caso I.M. e altri c. Italia, a cura dell’avvocata Rossella Benedetti). Questa nuova pronuncia conferma l’importanza dell’azione politica e giudiziaria femminista nel portare alla luce le responsabilità strutturali dello stato. L’Italia ha ora l’obbligo non solo di risarcire, ma di riformare le proprie prassi giudiziarie affinché le denunce di violenza siano trattate con la rapidità, la serietà e il rispetto che la Convenzione di Istanbul e la Cedu impongono.
Una vittoria collettiva
Come ha sottolineato Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna, la decisione «rappresenta un riconoscimento fondamentale della lotta delle donne contro la violenza maschile e una chiamata in causa diretta allo stato italiano, che deve garantire protezione immediata ed efficace, senza più sottovalutazioni né ritardi».
La sentenza di Strasburgo è dunque l’ultimo passo di una storia lunga, fatta di ostacoli, rinvii e minimizzazioni. Una vicenda che mostra quanto sia difficile, per le donne vittime di violenza, ottenere un accesso effettivo alla giustizia. La forza di Valentina Scuderoni è stata quella di andare avanti, di mantenere la fiducia nonostante tutto: fiducia nella giustizia, nelle sue avvocate, nelle operatrici dei centri antiviolenza di Differenza Donna che l’hanno sostenuta.
È anche grazie a questa rete che la sua vicenda personale è diventata una vittoria collettiva, capace di produrre un cambiamento per tutte: la Corte europea ha scritto nero su bianco che non basta avere leggi avanzate, ma serve che siano applicate senza ritardi e senza pregiudizi. E ha ricordato che le donne hanno diritto non solo a denunciare, ma a essere credute nella loro battaglia, mai singolare, ma sempre collettiva e per questo politica, per una vita libera dalla violenza.
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