La corte d’Assise ha condannato a 30 anni, invece che all’ergastolo, l’assassino, Salvatore Montefusco. Nelle motivazioni si parla di «comprensibilità umana dei motivi». Manente (Differenza Donna): «Emerge un quadro di violenze sminuite»
La violenza maschile contro le donne è un fatto sociale, ma viene spesso relegato a fatto privato. Lo suggeriscono, ancora una volta, le argomentazioni usate nella sentenza della Corte di assise di Modena, che il 13 gennaio ha condannato a 30 anni di reclusione Salvatore Montefusco, per il duplice femminicidio della moglie, Gabriela Trandafir, e della figlia della donna, avvenuto in presenza del figlio nato dalla relazione tra di due, Salvatore Junior, all’epoca minorenne. È stato lui a chiamare il 112 e a mettersi davanti alla madre per provare a impedire al padre di ucciderla. La procura aveva chiesto l’ergastolo.
Una sentenza che Teresa Manente, avvocata penalista che con l’associazione Differenza donna da anni si occupa di contrasto alla violenza di genere, ritiene «inaccettabile», non per l’entità della pena. «La condanna a 30 anni o all’ergastolo poco cambia per un uomo di 70, ma è inaccettabile per le motivazioni scritte», spiega Manente, considerandole un «vero e proprio documento che mostra come non vengano credute le donne vittime di maltrattamenti gravi ed efferati».
La Corte non ha accolto la richiesta della procura perché ha ritenuto equivalenti le attenuanti generiche alle aggravanti, «in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto di reato».
Spiega Manente: «È prevalsa l’argomentazione che l’uomo sia stato preso dal raptus – che in questa sentenza chiamano “black out emotivo” – per il fatto di dover lasciare la casa alla donna, che aveva chiesto la separazione». Per i giudici la prospettiva di dover lasciare l’abitazione e «l’insopportabile timore che la moglie avrebbe potuto portare in casa un altro uomo» avrebbero costituito la «personale percezione di aver subito una profonda e immeritata ingiustizia».
Si parla della proprietà della casa invece di approfondire i crimini «gravissimi che Trandafir aveva raccontato nelle sue denunce», sottolinea l’avvocata. La sottrazione della casa – «costruita con le sue mani», insiste la Corte – giustificherebbe dunque la sua reazione.
Tra le attenuanti, i giudici hanno considerato l’incensuratezza dell’uomo, arrivato all’età di 70 anni, ma «gli autori di femminicidio sono quasi sempre incensurati», spiega l’esperta.
La sentenza della Corte, di oltre 200 pagine, raccoglie le denunce e segnalazioni fatte dalla donna un anno prima del femminicidio, le informazioni dalla figlia e dalla sorella. Quello che emerge è un quadro fatto di violenze psicologiche, economiche, fisiche.
E la situazione in casa è peggiorata dopo la denuncia, quando l’uomo ha deciso, dopo aver impedito che la donna avesse un’indipendenza economica, di «far mancare i mezzi di sostentamento sia a me che ai nostri figli», raccontava Trandafir ai carabinieri.
«Tutti i fatti denunciati», commenta l’avvocata, «sono stati minimizzati e non è stata emessa alcuna misura cautelare», se non il sequestro delle armi, in tutto 14 tra pistole, fucili, doppiette e carabine. «Ho ritrovato la storia di tante donne che vivono questa escalation di violenza, soprattutto dopo aver denunciato», aggiunge.
Formazione
«Litigi», «forte conflitto», «problemi di convivenza», «rapporto disfunzionale»: sono le parole scelte dai giudici per descrivere i fatti, «ma la donna», fa notare Manente, «ha raccontato di aggressioni fisiche e violenze sessuali che era costretta a subire. Non si tratta di un rapporto disfunzionale, è violenza». Di fronte alla controdenuncia di Montefusco, fatta mesi dopo la querela della donna, occorre chiedersi «cosa è successo prima?»
Manente ha preso parte ai lavori della commissione d’inchiesta del Senato sui femminicidi, nella scorsa legislatura, che ha pubblicato uno studio, dopo un’analisi di oltre 200 sentenze: «Emergeva in maniera evidente la sottovalutazione delle violenze denunciate e l’uso di un linguaggio che non rappresenta il giusto contesto».
E aggiunge: «I fatti devono essere nominati per quello che sono. È un linguaggio che non riesce a rappresentare la verità». Per questo è necessaria la formazione di tutti gli operatori della giustizia che, pur essendo obbligatoria, non è in grado di permettere di raggiungere gli obiettivi posti dalle convenzioni internazionali, «anche perché non c’è la copertura economica», spiega Manente.
La formazione degli operatori della giustizia è «inadeguata» – emergeva dalla relazione della commissione – e «non sempre in grado di riconoscere la violenza nella sua cornice globale, ridimensionandola a mero conflitto».
Argomentazioni che possono avere conseguenze molto gravi: per le donne che si trovano in situazioni di violenza e vogliono denunciare, e «percepiscono invece una legittimazione alla giustificazione della violenza maschile», conclude Elisa Ercoli, presidente di Differenza Donna. Ma anche «per le nuove generazioni e per la collettività», che non vede una reale possibilità di giustizia in caso di femminicidio.
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