Tutti gli omofobi hanno un amico gay, tutti i sessisti sono sinceri femministi e chi ammazza i vicini di casa quasi sempre salutava sempre. Così pure Francesco Acerbi ha un amico nero, anzi di più, un idolo, diamine, un idolo nero come George Weah. Lo abbiamo scoperto da un'intervista al Corriere della sera, e chi poteva immaginarlo, più banalmente c’eravamo convinti che avesse usato «nero» per ferire Juan Jesus.

Non ce lo siamo sognato noi, anche se oggi pare di sì. Nelle pagine più buie della storia di questo paese c'è stato un capo di governo che si è vantato una volta di non aver voluto stravincere. Non sembra una preoccupazione di Acerbi. Ora che porta in tasca una sentenza di non colpevolezza per l'accusa di razzismo, Acerbi vuole tutto, anche il bacio della buonanotte. Va dicendo quel che si ascolta in questi casi: io non sono così, mi avete giudicato male, non sapete che pasta d’uomo sia. Ha ragione. Non lo sappiamo. Nessuno sa cosa succede nelle case degli altri, dice la baronessa di Paolo Sorrentino. Proprio perché non lo sappiamo, non conosciamo Acerbi, non siamo tenuti a conoscerlo, uno si limita a guardare le cose che accadono in pubblico, a osservare la scena, leggere i fatti.

Sulla scena c’è una sentenza del giudice sportivo che ha individuato un’offesa e una minaccia, anzi parole «non disconosciute nel loro tenore offensivo e minaccioso». Di Acerbi, non di Juan Jesus. Una sentenza che riconosce la «prova dell’offesa raggiunta sicuramente» per mezzo di una frase emersa con chiarezza durante la deposizione in procura, «Ti faccio nero»: dunque l’uso di una parola che discrimina per offendere e minacciare un avversario.

È curioso che tutto questo non sia stato considerato razzismo, ma è perfino più curioso che Acerbi al Corriere della sera dica «abbiamo perso tutti», una dichiarazione talmente masticata da sembrare uno di quei chewing-gum attaccati sotto le sedie alle scuole medie, più o meno l’equivalente del «sono cose che fanno male al calcio» in voga a Novantesimo Minuto negli anni Ottanta.

È curioso che Acerbi lo dica ed è soprattutto falso. Non abbiamo perso tutti. Lui no. Lui ha vinto. Ha salvato il contratto all’Inter, quel poco di carriera che gli rimane, il posto in nazionale ai prossimi Europei. Che cosa avrebbe perso? Acerbi parla di gogna mediatica. Devono avergli passato la rassegna stampa sbagliata. Chi gli sta vicino, gli spieghi il privilegio di vivere e giocare nella città dei grandi giornali. Se fosse stato ancora al Chievo e al Sassuolo, gli sarebbe toccata qualche lezione in più, invece molte lezioni sono state fatte a Juan Jesus, la vittima.

All'Inter hanno giocato la loro partita legale, una come tante, come nei telefilm americani. Hanno letto i codici, si sono dati una strategia, volevano portare a casa l'assoluzione, ce l’hanno fatta e lo fanno trapelare bene sui giornali. Tutto lecito. Ogni parte in una causa ha il diritto di proteggere i propri interessi. Ma il calcio italiano non è l'Inter, non è solo l'Inter, e questa storia non è solo un procedimento giudiziario, ma una battaglia culturale. Cosa porta allora a casa il calcio italiano alla fine di questa storia?

Ogni volta c’è una scusa

Una serie di segnali scoraggianti, primo fra tutti il totale svuotamento di senso della parola razzismo. Ora sappiamo che «ti faccio nero» è meno grave di «ti spacco la faccia». Portiamo a casa la certezza che Acerbi abbia ragione. Non è un razzista. Per essere razzista nel calcio italiano bisogna solo aver preso la tessera del Ku Klux Klan. Tutto il resto è sempre giuoco, ilarità, sfottò, ti faccio nero, che risate, «una parola malintesa» la chiama Acerbi – che secondo la deposizione di Juan Jesus, all’arbitro avrebbe detto «per me negro è un insulto come un altro». Un insulto. Come un altro. Forse per questo a un certo punto aveva sentito il bisogno di metterci una pezza, ma sì, quante storie, facciamola finita, scusa, non è una cosa seria, se è una cosa seria sono domande che bisogna rivolgere al mister.

In fondo per ogni buuu c’è una giustificazione, un cavillo, una minoranza («erano una minoranza»), ci sono sempre un avvocato manzoniano e un giudice di Collodi, un Bonucci che dice a un Kean: «Credo che la colpa sia 50 e 50». Proprio in questi giorni, gli editoriali in Spagna difendono il diritto di Vinicius jr a essere stronzo in campo, senza per questo dover essere chiamato scimmia. Quanto li avrebbe desiderati Mario Balotelli, degli editoriali così.

Il calcio italiano porta a casa pure lo sconcerto per aver sentito il presidente federale Gabriele Gravina – il presidente dalla A fino ai Dilettanti – avallare la tesi che Acerbi sia la vittima in questa storia. Altrimenti perché dire: «Quando vedrò Acerbi lo abbraccerò»? Perché non dargli la fascia da capitano della Nazionale? Quella fascia che portava Giorgio Chiellini tre anni fa, quando agli Europei spiegò che l’Italia non si sarebbe inginocchiata, ma che presto ci sarebbero state altre iniziative contro il razzismo. Sarà questa. Sarà l’abbraccio ad Acerbi. Era così desueto l’argomento che Chiellini sbagliò parola, gli scappò detto: nazismo.

Certo, ora Gravina si dice pure vicino umanamente a Juan Jesus, vicino ma a questo punto non si capisce perché, vicino eppure a distanza, non lo abbraccerà, ecco, così pare di capire. Ribadisce «l’impegno della Figc da sempre nella battaglia contro il razzismo» ma non risulta per esempio che intenda abbracciare Sergio Rocha jr, giocatore della Villacidrese offeso per tutta la partita dall’allenatore avversario, Andrea Congiu del CUS Cagliari. Non importa se Andrea Congiu sia o non sia una meravigliosa persona – lo sarà certamente – ma il CUS Cagliari lo ha licenziato. Senza leggere labiali, senza avere telecamere sul campo.

Chi si imbarazza e chi no

Gravina difende invece il suo nazionale perché «c’è una decisione del giudice che tutti devono accettare, compreso chi non si sente soddisfatto». Anche questo è un chewing-gum, la famosa «sentenza che si deve rispettare». Se tutte le sentenze si dovessero rispettare, Rubin Hurricane Carter si sarebbe fatto tre ergastoli ingiustamente, Sacco e Vanzetti non sarebbero stati riabilitati. È una colossale scemenza. Le sentenze invece si impugnano, si contrastano. In modo legittimo lo ha fatto la Juventus per 18 anni dopo Calciopoli. Casomai le sentenze si applicano, ma pure su questo chi lo sa, alcune sì, altre no, la federazione per esempio continua a portare la nazionale in uno stadio che di quella sua sentenza si fa beffe.

Questa volta insomma Gravina abbraccerà Acerbi e non impugnerà la decisione del giudice come fece invece nel caso di Lukaku, quando qualcosa non gli tornava. Eppure, qualcosa non torna a molti osservatori. Il ministro Andrea Abodi ha detto: «Spero che Acerbi sia in pace con la sua coscienza». Lorenzo Casini, presidente della Lega, ha sentito il bisogno di definire la reazione di Juan Jesus «chiaramente comprensibile». C’è pure il suo nome sotto il comunicato della sentenza, parlare di autonomia del giudice sembra una maniera per marcare una distanza. A Casini pare comprensibile persino che il Napoli non partecipi alle prossime puntate della campagna Keep Racism Out, vai a capire perché poi in inglese, forse in italiano era troppo impegnativo, si capiva meglio la distanza tra palco e realtà.

Del resto il calcio italiano non spicca spesso per decisioni coraggiose. Una volta fa perdere a tavolino un club con 18 calciatori ammalati di covid (Reggiana), un’altra nega il rinvio alla squadra di una città travolta da un’alluvione (Senigallia), un’altra ancora sospende il giudizio su Manolo Portanova, condannato in sede penale in primo grado a sei anni di reclusione per violenza sessuale di gruppo. Prima di far qualcosa, la FIGC aspetterà la sentenza definitiva, però mettendo la prossima volta un bel graffio rosso sulla faccia, com’è quella storia, ah sì, contro la violenza sulle donne. Keep Racism Out, su. Nel frattempo, in un processo indiziario, tra la parola di un bianco e la parola di un nero, la prima conta ancora un pochino di più. Ma al nero siamo umanamente vicini.

La risposta più felice di Acerbi nell’intervista al Corriere della sera è l’ultima, quando dice «metto un punto alla vicenda. Non voglio parlarne mai più». Ecco, bravo. Noi purtroppo no. Ci toccherà al prossimo buuu.

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