Ci sono temi respingenti. Libri respingenti. Disabilità e cancro. Magari insieme. «A tutto c’è un limite», «mica ancora a me», invece sì. Ancora a te. Ti nasce una figlia con una gravissima malformazione cerebrale, fallimento della diagnostica prenatale, e tu ti ammali di cancro. Quarto stadio, solo questione di tempo.

Questo si potrebbe dire di Come d’aria, semifinalista allo Strega di quest’anno, libro di cui si sta parlando parecchio in queste ore a causa del fatto che due giorni dopo l’annuncio della dozzina la sua autrice ci ha lasciati.

«Ada d’Adamo è morta si legge», stiamo leggendo ovunque, la realtà ha portato a compimento quel che nel memoir pubblicato dalla casa editrice Elliot continuamente riecheggia, eppure questa vicenda, questo libro, non si lasciano ridurre alla categoria del destino tragico, dell’accanimento della vita contro una singola persona. Come d’aria non è un libro-testimonianza, non è un libro sulla malattia, sulle malattie. Non è un libro che si limita a esporre desolanti dati di realtà, quel che, privatamente, certo non in una recensione destinata alle pagine di un giornale, definiremmo «somma di sfighe».

Danzatrice

Ada d’Adamo fu anche danzatrice, si diplomò all’Accademia Nazionale di Danza e di danza scrisse molto, ed è questa, credo, la chiave per entrare in questa piccola, sfrontata, libera meditazione sulla condizione umana.

Se tutta la nostra vita può in un certo senso essere letta come una serie di molteplici, maldestri o gloriosi, tentativi per convivere con e superare la forza di gravità – volare è una delle ossessioni dell’umanità, un sogno che ha sempre catalizzato sforzi ed energie –, la danza è a tutti gli effetti una seducente metafora della sfida alle leggi fisiche, leggi che ci vogliono vincolati al corpo e dunque al suolo, inadatti al cielo, al regno dell’aria.

Ada d’Adamo porta tutto questo nella sua scrittura, che è precisamente una continua operazione di reinterpretazione della brutalità oggettiva – brutalità che è toccata in sorte a lei e alla figlia Daria affetta da oloprosencefalia – attraverso possibilità offerte dall’immaginare, e dunque scrivere, altro, un altro modo di essere corpo, di essere peso, dell’avere o non aver peso.

Come d’aria è un libro che inventa un’altra meccanica, un libro che sposta, e apre, perché porta spazio lì dove sembrerebbe non essercene più. Un libro che nega quella categoria di libro respingente, di libro che fa troppo male leggere, di libro che «no, ora non è periodo, magari più avanti», perché mostra quanta vita sempre resta – da creare, escogitare – anche quando di vita sembra non essercene più.

Gravità è proprio il titolo del brano che precede il prologo: «Sei Daria. Sei D’aria. L’apostrofo ti trasforma in sostanza lieve e impalpabile. Nel tuo nome un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità che ti chiama alla terra».

I mari estremi

Ada d’Adamo ci porta in quelli che Lalla Romano, riprendendo il titolo di una novella di Anderson, definì i «mari estremi», ma lo fa munendoci del formidabile antidoto dell’invenzione corporale, una specie di nuova, misteriosa ontologia, che forse poi è semplicemente lo sguardo a cui si può accedere se si ha il coraggio di sprofondare davvero nelle cose, anche quando sono ultime.

E di coraggio in questo piccolo libro ce n’è tanto: un coraggio del dire e dell’ammettere (si veda il passaggio in cui si racconta del tentativo di uccidere la figlia ancora in grembo con un viaggio in motorino), ma anche il coraggio del dire e dell’ammettere di più, del vedere oltre, del sovrapporre al regno della gravità quello, per così dire, della grazia.

Categorie queste che subito rimandano a Simone Weil, la filosofa senza compromessi, alla cui asprezza ariosa viene effettivamente da pensare nel corso delle pagine senza sconti eppure vitalissime di d’Adamo.

C’è la malattia in questo libro, c’è il corpo prostrato, in disfacimento, ma non sta qui l’epilogo, non è questo il piano a cui viene lasciata l’ultima parola. Ada d’Adamo è morta ma la gravità non ha vinto, perché resta, a noi resta, il suo libro che proprio questo ci chiede di ricordare: che sempre possiamo fare qualcosa d’altro di ciò che ci capita. Essere umani significa abitare il mondo del senso, lì dove, trafficando coi segni, la lingua e le immagini, tutto può prendere a riverberare una luce diversa.

Per noi ma anche per gli altri, perché da questi interventi semiotici e tutto sommato un po’ magici può nascere un modello, un esempio, una storia esemplare. Una storia che mostri quanti altri modi esistono per fronteggiare l’irreparabile, per accendere una fiammella, o appiccare un fuoco, nelle profondità più ctonie delle vicende umane.

Come d’aria è libro che senza pietismo né svolte edificanti insieme mostra la maledizione e il fondo su cui darsi la spinta per l’ultimo contro-incantesimo, tutto fatto di parole, di lingua. Di incastri morfologici e sintattici, che sembrano dire: la vita sta anche qui. Sta nell’annodare a una frase, a una parola, la novità che ognuno in ogni caso si porta appresso, novità di significato e prospettiva, non importa se la tua esistenza dura vent’anni o novanta, se si è sani o malati, all’inizio o alla fine.

Errore e orrore

Alza la posta questo libro, e lo fa puntando tutto sullo specifico letterario, su quel che compete alla letteratura: modificare la realtà attraverso le parole, prendere una manciata di fatti e mutarne la forma e la portata attraverso l’infusione di quel che nei fatti non c’è, non sembrava esserci. Come d’aria racconta quel che per molti è errore e orrore – come non dev’essere una storia d’amore, come nessuno vuole essere madre, come nessuno spera di ridursi – esponendo tutto e insieme chiedendo al lettore di non fermarsi lì, di non attestarsi al mero resoconto, ma di seguire invece la scrittrice nella sua ultima, infinita danza di parole e intuizioni.

Via via che le pagine scorrono, infatti, la sorte dell’autrice-narratrice si fa inesorabile ma insieme la sua voce si sposta, trova luoghi segreti da cui iniziare a parlarci e continuare a farlo, dentro e contro la fine del corpo. La grande eredità di Ada d’Adamo sta qui, nell’essersi trasformata in questa voce, in questo pungolo tutto linguistico, tutto letterario, che prescinde e insieme riorienta le vicende concrete, il «come è andata a finire».

Scrive d’Adamo: «La tua badante diventa anche la mia. La domenica il babbo ci solleva entrambe dal letto. È così che, ancora e ancora, continuo a identificarmi con te. Il mio corpo sperimenta, seppur in misura ridotta, i limiti del tuo. Prima li conoscevo, li sentivo, li toccavo, attraverso te; poi ho cominciato via via a incorporarli (…) Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria».

Ada d’Adamo non c’è più ma sarebbe più giusto dire che già non c’era più, dato che ha precorso la sua fine reale imprimendo sulla pagina un’altra fine per sé stessa.

Si è fatta finire attraverso una fusione, narrativa, immaginifica – fusione con la figlia, fusione con le parole – ed è a questo gesto che dovremmo restare fedeli, è questo che, da qui in poi, dovremmo dire di lei. Far collassare amorevolmente la vita e la letteratura in uno stesso punto, negare la possibilità di distinguere, categorizzare: da qui passa la rivoluzione eterna a cui sempre hanno guardato gli scrittori, che sollevano l’esistenza dal regno della gravità donando alle cose un peso nuovo, sconcertante, assoluto.

In queste manipolazioni impavide e miracolose sta tutto il senso di una vocazione, che era anche quella di Ada d’Adamo, danzatrice e scrittrice, maestra dell’aria.

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