È stato l’inventore di una dimensione, ha generato un contesto, una piattaforma che è diventata di tutti. Le persone in fila ieri hanno salutato la fine della storia di una persona, ma anche di un’epoca, del Novecento
Quando finisce un tempo, un’epoca, un secolo, una storia, una persona? E quando, invece, succede il contrario? I limiti delle biografie sono veramente anagrafici o c’è modo di aumentarli, riuscendo così a resistere al tempo?
Pochi giorni fa, primi di settembre, ricevo un messaggio da un’amica: «Hai visto?» «Cosa dovrei aver visto?».
Ero in mare aperto e senza campo fino a poco prima e quando torni a terra le cose capitate al nostro telefono nelle ore senza connessione appaiono sullo schermo secondo un ordine piuttosto insondabile.
Capisco solo quando arrivano le notifiche di tutti i quotidiani a cui sono abbonata – italiani e non: «È morto Giorgio Armani». Lo dico ad alta voce, e penso che non è il modo migliore per dirlo a mia sorella e mia madre con cui sto scendendo da un aliscafo. Mia sorella scoppia a piangere. Mia madre: «No, oh no». Perché la morte, per quanto siamo disposti ad includerla accettarla e considerarla parte della vita, resta per gli umani la vertigine più inaccettabile.
Mia sorella continua a piangere per svariate ore: «Eli, Armani è una di quelle persone che non muoiono davvero (si può morire anche per finta, magari, le faccio notare) per questo non riesco a crederci». E continua: «Non mi pare possibile» – questo «non mi pare possibile» lo sentirò tante volte in questi giorni, riferito alla morte dello stilista.
E ancora: «sono triste anche perché è finito un tempo». Questa frase resta lì per un po’, con la sua radiazione. «Quale tempo?», le chiedo. «Beh lo conoscevamo da tanti anni, un amico di mamma, lo vedevo tutte le estati, mi ha dato tanti consigli (che però non hai seguito, le faccio notare ridendo)». E poi mi fa notare che c’è qualcosa in più: è che quando muore un immortale muore un pezzo di tempo. Muore un pezzo di mondo. E un modo di essere di fare di dire di stare.
Un sogno americano, ma tutto italiano, che rassicura e dice con fermezza che: con il lavoro si arriva ovunque, che con la disciplina e il rigore si può conquistare il pianeta, vestire Hollywood o andare sulla luna, e magari, oltre al successo – al guadagno, alla fama, all’immortalità – si può fare (del) bene. Con discrezione, sparendo quasi, mimetizzandosi nel proprio lavorare, fino all’ultimo momento che abbiamo a disposizione.
Inventarsi un contesto
Camera ardente sabato e domenica a Milano. Prendo il treno, pronta a vedere a cosa somiglia Milano senza un pezzo di Milano. O forse che cosa resta di Milano senza Milano. «Ha chiuso per sempre il Plastic» mi farà notare poco più tardi un tassista: «Che ci vogliono togliere ancora?», mentre attraverseremo la città cercando di trovare un varco nella doppia manifestazione del Leoncavallo.
Il Frecciarossa va a 297 km/h, mi sembra di stare in aereo, un carabiniere fa su e giù incessantemente perché c’è un politico (ben nascosto) che immagino andare proprio dove vado io (via Bergognone Armani/Teatro). Ripenso alle volte in cui ho avuto a che fare con il signor Armani – così veniva chiamato da tutti quelli che lavoravano con lui, anche dai più prossimi.
L’ho visto spesso a Pantelleria, dove andava in vacanza. Lui e il gruppo di amici e collaboratori che portava con sé ogni anno. Lui al centro in una nebulosa che nella mia memoria è fatta di bellissimi e bellissime, con cui costruiva un contesto, un sogno mobile.
Come se da un momento all’altro potesse uscire fuori qualcosa di memorabile, di incredibile, qualcosa che somiglia a un film. Altri ricordi, certi negozi, Tokyo, il mare, i miei genitori, tutti noi più giovani, tavoli lunghi con tanti ragazzi, allegria, un mio ex fidanzato che gli finisce il piatto di spaghetti. È sempre estate in questi ricordi, una specie di sogno che ha anche un profumo: l’incenso.
Armani, oltre alla persona che è stata, all’uomo, al creatore, e a tutte le definizioni e i mestieri che le biografie più o meno accurate di questi giorni tirano fuori, è stato anche inventore di una dimensione estetica che è fatta dall’aria che hai intorno, come avesse messo a punto la formulazione di un’atmosfera che protegge un pianeta – in questo caso inventato da lui.
Non so come, si è immaginato un mondo, e così ha generato un contesto, una piattaforma che poi è diventata di tutti.
Il vuoto
«Un senso di vuoto. Pare che mi è morto un parente. Che smarrimento. Quanto era umile, quante persone ha aiutato. Mi è sempre piaciuto anche se non ho mai comprato niente di suo». Sono le frasi che sento dire in treno, perché ovviamente la sua morte è davvero la notizia del giorno (e non solo). Vorrei chiedere di più a questi sconosciuti, cosa è esattamente questo vuoto e dove si sono persi e smarriti per un lutto all’apparenza distante anni luce dalla loro vita. Ma in fondo cosa cambia conoscere o non conoscere qualcuno che per noi è significativo?
E ancora, sempre in treno, al bar: «Sai perché Armani ha avuto questo successo? A parte il lavoro e il talento, che ovviamente sono le premesse indiscutibili?», dice un signore alla figlia adolescente: «Per il nome». La figlia guarda nel vuoto. «Giorgio?». «No Carlotta, il cognome. Armani, non capisci che significa?». La ragazza non reagisce. «Are money oppure our money, sono soldi oppure i nostri soldi, capito?».
Torno al mio posto, dormo un po’.
La fine
Due ore più tardi. Armani teatro. Alla rotonda di via Bergognone transenne, bodyguard, vigili, blocchi, come ci fosse una sfilata, ma non l’ultima, non è pensabile che un organismo simile si fermi.
C’è una liturgia che assicura continuità, che va ben oltre i contratti i notai e le volontà.
Ma certo, è inevitabile chiedersi quanto dura un uomo, e tutto quello che ha costruito, rispetto al tempo? In fondo non facciamo quasi nient’altro dall’inizio dei tempi.
Intorno all’edificio, una fila composta attraversa la giornata pulita; c’è chi piange, chi fa foto, chi prega, chi ha un fiore e chi un mazzo, giovani vecchi bambini. Sconosciuti noti notissimi. Dipendenti, amici, affezionati. Fotografi, tantissimi, televisioni giornali radio.
La fila è lenta, le file di questa natura sono lente per forza. Ma non piove, il tempo è dolce, si sta bene qui.
Milano senza re (tanti lo chiamavano Re Giorgio), senza il Signor Armani, Milano che aspetta un miracolo dopo scandali e insofferenze, problemi crisi violenza repressa ed espressa.
Cemento e acqua, che pace in questo edificio, un corridoio rigoroso e poi la sala grande e buia che è così buia da sembrare infinita: musica, pianoforte, a terra una distesa di piccole lanterne arancioni di quelle che ogni tanto si incontrano alla deriva in cielo; sullo sfondo, una grandissima foto in bianco e nero del padrone di casa. Sorridente, che saluta, grato.
La bara chiara, essenziale, un mazzo di rose bianche. Accanto, come ad abbracciarlo, il compagno di vita Leo Dall’Orco, e poi Francesca Malagò, Michele Tacchella, la famiglia, e uno per uno i tantissimi in fila, su cui mi fisso, che osservo: chi fa il segno della croce, chi tocca, chi bacia la mano e poi con la stessa tocca il legno, ci sono anche ragazzini e bambini. C’è una città. Milano.
Quanti sono novantuno anni? Sono abbastanza, sono tanti, sono niente? Oggi ho salutato la fine di una storia, una persona, ma soprattutto la fine di un contesto. Che era il Novecento, di certo svanito da tanto ma che ancora è possibile sentire, a tratti, come una gamba fantasma, una mano amputata dove però si può avvertire ancora un anello che stringe, quella fede in un mondo che pareva ancora il solo posto possibile, e di certo, per noi, il migliore.
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