In Indonesia e in altre zone del Sud Est asiatico si produce una delle varietà di caffè più pregiate e costose al mondo. Si chiama Kopi Luwak, e a renderlo così particolare è il processo di lavorazione della materia prima: i chicchi del Kopi Luwak, prima di diventare il caffè che in certi posti viene servito a cinquanta euro a tazza, vengono ingeriti e poi defecati dagli zibetti delle palme, dei piccoli mammiferi simili a dei furetti. Questi chicchi, arricchiti di non ho capito bene quale aroma, vengono poi raccolti, lavati molto, molto bene, e trasformati in miscela di lusso.

È una pratica che esiste da più di cento anni, e se pensate che il problema principale sia che un caffè precedentemente semidigerito da un animale selvatico non vi fa per niente gola, sappiate che ci sono anche criticità più rilevanti, in particolare su come se la passano gli zibetti, che non beneficiano in nessun modo dei profitti maturati dal loro pregevole caffè defecato.

A volte ho l’impressione che Ryan Murphy sia uno zibetto delle palme prestato alla televisione. Creatore delle varie American Horror Story e altri innumerevoli filoni più o meno di successo (Glee, American Crime Story, Monster, per dirne alcuni tra i più fortunati) che gli sono valsi un contratto con Netflix da 300 milioni di dollari per cinque anni di lavoro, anche Murphy come il piccolo animale indonesiano ha la capacità di produrre merda di pregio.

Produrre senza tregua

Sono molti anni che Murphy è l’uomo più impegnato della televisione, e anche in questo ricorda lo zibetto, allevato in condizioni disumane e costretto a produrre senza tregua. Murphy dice di essere così preso dai suoi infiniti progetti che si è organizzato le giornate in unità di quindici minuti, e basta aver visto About a Boy per sapere che l’unità di misura per chi deve ingannare il tempo libero è la mezz’ora.

Quindici minuti non bastano per fare niente, se non per pensare ai quindici minuti successivi, e forse è così che l’uomo zibetto va avanti e conclude in un anno i progetti che molti non riuscirebbero a portare a termine neanche in una vita intera.

Non fa in tempo a uscire un prodotto firmato da lui che subito ne arriva un altro, e tra i due di solito ce n’è uno discreto e uno ciambella senza buco. Ma questo non gli impedisce di procedere inesorabile nelle sue maxi produzioni con cast che sembrano usciti da quei sogni che di solito si raccontano a qualcuno che non li vuole sentire: stanotte eravamo io, Naomi Watts e Kim Kardashian e aprivamo uno studio legale al femminile, diventavamo le migliori avvocate divorziste di Los Angeles e celebravamo la nostra amicizia su un jet privato. Poi una cliente si buttava dal balcone del nostro ufficio, e Kim veniva a lavorare con il culo di fuori.

C’era anche Glenn Close che partecipava a un’asta di gioielli, e Jessica Simpson sfigurata dalla chirurgia estetica. Alla fine Kim sfondava una macchina con una mazza da baseball come Beyoncé in quel video, e poi mi sono svegliata.

Questo è un riassunto abbastanza preciso delle prime tre puntate di All’s Fair, l’ultima creazione di Ryan Murphy uscita martedì su Disney+ e diventata in un secondo la serie più chiacchierata del momento. Solo che se ne sta parlando soprattutto per quanto è brutta, e se prima lo stile barocco di Murphy poteva lasciare alcuni spettatori (cioè me) perplessi anche su prodotti meno clamorosamente falliti, stavolta sembra che il kitsch non riesca nemmeno a fare il giro per diventare bello. Che poi, fallito.

All’s Fair potrebbe essere esattamente quello che Murphy voleva quando si è messo in affari con Kim Kardashian (qui nel suo primo ruolo da protagonista) e sua madre Kris Jenner, entrambe produttrici di questo The Lady ad altissimo budget e conveniente sportello bancomat senza commissioni per l’amico Ryan.

Povero Stanislavskij

È molto difficile stabilire fino a che punto sia deliberatamente orrendo All’s Fair, perché niente ha senso, ma tutto è coerente (internamente con la propria bruttezza senza appello). Sono brutti i dialoghi, quello in cui le tre socie dello studio e la loro mentore più agée discettano di peni e chirurgia estetica resterà con me per molto tempo, anche in quanto migliore prova attoriale di Kim K che in questa scena è incredibilmente sciolta e in effetti sembra intendersene di entrambi gli argomenti, abbastanza da non dover scomodare Stanislavskij.

Sono brutte le ambientazioni, a partire dall’ufficio dove ricevono le clienti, che è talmente finto che non mi sorprenderei se nella quarta puntata all’improvviso, nel cielo di Los Angeles fuori dalla finestra, vedessi sfrecciare uno sguscio della Minaccia fantasma.

Sono brutte le performance di tutte quante, che, forse per non far sfigurare la Kim o per il livello infimo della sceneggiatura, sembrano aver disimparato tutte a recitare. Naomi Watts deve aver rimpianto non poco la linearità di Mulholland Drive di fronte al copione lisergico di All’s Fair, e chissà come si sente Teyana Taylor, la Perfidia Beverly Hills di Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson che qui ritroviamo come aspirante avvocata rubamariti, a essere contemporaneamente nella cosa migliore e in quella peggiore dell’anno.

La missione di Murphy però anche stavolta è compiuta, e noi non possiamo fare a meno di leccarci i baffi di fronte a questo cumulo di sterco fumante.

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