La cantante indie, nel suo bellissimo nuovo album West End Girl, ha applicato alla fine del matrimonio con David Harbour la lezione che abbiamo appreso da Hearburn (ma anche da Lemonade di Beyoncé). Ovvero che le corna non servono a nulla se non le puoi fatturare
Le corna non servono a niente, se non le puoi fatturare. È una lezione che io ho imparato, insieme a molte altre, da Nora Ephron, che nel 1983 pubblicava Heartburn (in italiano Affari di cuore, titolo a mio parere non fortunatissimo ma rimasto immutato, anche nella recente riedizione uscita per Feltrinelli), un romanzo che dietro allo schermo della fiction raccontava non troppo velatamente la storia del suo matrimonio con Carl Bernstein (quello del Watergate, mica l’ultimo dei coglioni) e soprattutto del suo divorzio da Carl Bernstein, il quale era stato molto bravo a indagare sulle malefatte di Nixon, ma non altrettanto a tenerselo nei pantaloni.
E così ci fece un bestseller e dal bestseller venne il film di Mike Nichols con Meryl Streep e Jack Nicholson (mica gli ultimi dei coglioni) e come per magia la cosa peggiore che le fosse mai successa era diventata un bancomat bello sostanzioso. Everything is copy (“è tutto materiale narrativo”) è il titolo del documentario su di lei, scritto dal figlio Jacob Bernstein, ed è una lezione che vale anche per chi non vuole scrivere. «Se scivoli su una buccia di banana, gli altri ridono» dice Ephron, «ma se racconti di essere scivolata su una buccia di banana, la risata è la tua». Un approccio che vale per gli scrittori, gli artisti, ma anche qualche maestro zen, immagino.
Di sicuro vale per Lily Allen, che dopo sette anni di assenza dal mercato discografico, è tornata con un nuovo album, West End Girl, in cui prende il suo matrimonio fallito e lo mette abilmente a reddito. Si dice che sia il suo Lemonade – cioè l’album con cui Beyoncé spiattellava le corna di Jay Z, prima di riprenderselo in casa – ma trovo invece che sia proprio un disco di Lily Allen, che non è certo nuova all’arte dello sputtanamento via canzonetta.
Una relazione come tante?
Faccio un breve riassunto della vicenda che ha ispirato West End Girl: nel 2020 Lily Allen – cantante inglese indie famosina negli anni 2000, mix perfetto di coolness britannica, parolacce e frange pazzesche – sposa a Las Vegas David Harbour, attore americano (noto per il ruolo di Jim Hopper in Stranger Things) conosciuto pochi mesi prima su Raya, il Tinder delle persone ricche o famose o ricche e famose.
Lei ha due figlie da una relazione precedente e sui social, con Harbour, sembrano una meravigliosa famiglia moderna. Io mi innamoro di lui per procura. Le foto del loro matrimonio – lei in un delizioso vestito anni Sessanta, con tanto di cofana in testa mangia degli hamburger sui tavoli di un postaccio qualsiasi, lui la prende in braccio davanti a un Elvis sovrappeso, le bambine li seguono, deliziose – sono un dipinto di felicità che ho amato dal primo momento.
Non so spiegarmi perché me ne freghi delle coppie famose, ma loro erano finiti in cima alla mia personale classifica. Potete immaginare quindi la mia delusione nell’apprendere che non solo all’inizio di quest’anno si sono lasciati, ma si sono lasciati male, abbastanza male perché lei potesse scrivere 45 minuti di canzoni su quanto lui faccia schifo come marito e come essere umano. Abbastanza perché chiunque lo ascolti desideri vedere Hopper morire malamente nella prossima stagione di Stranger Things.
L’arte migliore
Al di là delle corna che vendono bene – ricordiamo che una delle ultime vere sorprese editoriali è stato il bestseller di Giulia De Lellis feat. Stella Pulpo Le corna stanno bene su tutto – West End Girl è un perfetto disco pop. E non solo perché pezzo dopo pezzo Lily Allen snocciola tutto quello che è andato male nel suo rapporto con il marito – i messaggi tra lui e l’amante, il sacchetto di preservativi e dilatatori anali trovati in casa, la relazione aperta solo da un lato – ma perché lo fa con la leggerezza che ha sempre avuto, con ballate sognanti e ritornelli ossessivi che mi resteranno in testa per mesi e finiranno dritti sparati nel mio Spotify Wrapped di dicembre.
Con l’infelicità si produce l’arte migliore, lo dice anche Adele, che con le sue sfighe in amore ci ha fatto alcune delle canzoni più memorabili di questo secolo e poi si è innamorata e ha finito le cose da dire. Anche Lily Allen era in un periodo di secca, ma mi piace pensare che non abbia sofferto invano e che West End Girl apra una nuova strada di grandi successi per questa popstar quarantenne con due figlie preadolescenti a carico.
Intanto è in vendita per otto milioni di dollari la casa di Brooklyn che la coppia aveva comprato dopo il matrimonio. Io l’avevo vista in un video di Architectural Digest che è su YouTube e che tutti stanno riguardando in cerca di indizi della catastrofe imminente. L’ho rivisto anch’io e a parte l’evidente incompatibilità di gusti estetici nelle scelte schizofreniche di arredamento (zebra, Versailles), non ci ho trovato il seme della discordia che tutti dicono di rintracciare nelle risate di lei, nelle battute di lui. Ho rivisto una coppia come tante, solo più ricca.
Della casa si parla nella prima canzone dell’album, la title track, dove tra le altre cose Allen dice di essersi sentita un po’ in imbarazzo quando scelsero di comprarla, perché lei non se la sarebbe mai potuta permettere da sola. Le auguro quindi che queste corna siano il suo Heartburn, il suo Lemonade, il suo bancomat senza fine, e che West End Girl le compri tutte le case che vuole.
© Riproduzione riservata



