Loro la chiamano «la poesia dei luoghi sbagliati». Luoghi di spazi gestiti male, di abomini architettonici, di pretenzioso disagio estetico. “Loro” sono i fratelli D’Innocenzo, un exploit da rivelazioni assolute con La terra dell’abbastanza, film d’esordio, e un premio per la sceneggiatura a Berlino per Favolacce, giusto prima che sul cinema in sala calasse il lungo silenzio della pandemia.

La natura delle location è capitale, sempre, per capire cosa si agita nella testa di chi fa film. Le location forniscono una cornice che spesso diventa il main character, il protagonista simbolico del racconto. Le villette borghesi del pontino, tra Ardea e Latina, in un territorio che conserva i fantasmi delle antiche paludi bonificate, «umido e di esclusivo transito», come lo descrivono i gemelli più famosi del nostro cinema, sono entità sinistre.

Le villette della periferia di Latina sono lontane mille miglia dagli alveari di borgata de La terra dell’abbastanza, ma sono riferimenti familiari ai D’Innocenzo perché è in quella zona che vivono i loro genitori. Non è dato capire quanto questo ritorno a casa abbia influito sul film che portano in concorso a Venezia, America Latina.

Neritudine e dolcezza

Non è una connotazione geografica, il titolo, semmai un gioco di parole. E non è una connotazione antropologica quella che segna il ritorno con i fratelli di Elio Germano, già in Favolacce. Il suo è un personaggio agli antipodi. La neritudine che lo avviluppa in America Latina fa a cazzotti con una dolcezza che gli viene da dentro.

Germano è un innocuo dentista di nome Massimo Sisti, nome comune, esistenza comune, villa di design da geometri, moglie amorosa e due figlie fiorenti da accudire. Unica trasgressione veniale, la sbronza settimanale col solito amico d’infanzia. All’indomani di una bisboccia, in cantina si imbatte nell’impossibile: c’è una ragazza legata, imbavagliata e sanguinante in mezzo a un immondezzaio di cocci.

L’incubo inizia qui, e mi corre l’obbligo di segnalare lo spoiler, perché è materialmente impossibile ragionare sul film senza parlare del seguito. L’ordinario buon senso consiglierebbe di chiamare la polizia e risolvere il mistero. Il dentista invece dubita di sé stesso, di amnesie indotte dall’alcool, chiude a chiave la porta della cantina e avvia una goffa indagine sulla sua stretta cerchia di relazioni: l’amico in bolletta, un padre a cui lo lega un conflitto senza quartiere, perfino le tre donne “angelicate” che lo circondano.

C’è un crescendo di intimità clandestina con la prigioniera, che non parla mai, è quasi un essere disumanizzato, una vittima di violenza priva di identità, cosa che forse dovrebbe renderla paradigmatica e universale. Il dentista la disseta e si occupa financo del suo apparato dentale. A questo  punto del film, non c’è spettatore che non sia già persuaso di essere entrato in un tunnel di allucinazioni e fantasmi zona Possession, del bravo vecchio Polanski.

Più pragmaticamente, i fratelli stanno esplorando la deriva verso la follia di un uomo senza qualità, la sua visione disturbata della realtà che scivola nella paranoia. Non è un tema nuovissimo per il cinema. Spider di Cronenberg , anche grazie al romanzo originale di Patrick McGrath, è uno degli esempi più memorabili.

Disarmonie

Ma c’è un finale che spariglia le carte e toglie ai fantasmi incorporei il loro mistero. Certe incoerenze, se non sono parti dell’immaginazione, non tornano più. Forse il trio femminile “giudicante” di casa è stato già vittima della follia, in conformità con le cronache di stragi familiari trasmesse dai notiziari. Qualche indizio lo fa sospettare.

Elio Germano, che recita anche con i pori della pelle, è quel gigante che è. Qui è portatore di dolore, paura, tenerezza, di dubbi e domande che attendono al varco ogni essere umano davanti a una cesura. Non insegue standard, è perennemente alla ricerca di nuovi prototipi: è quanto dice a proposito dei fratelli D’Innocenzo, ma sembra un autoritratto. Come attore ha vinto a Berlino, e a Cannes si è portato a casa uno storico ex aequo con Javier Bardem, scusate se è poco. Manca la Coppa Volpi nel suo medagliere, ma forse questa non è la volta buona.

Troppi nodi non arrivano al pettine con America Latina, ma sono legati alla sceneggiatura. Il film lascia decisamente perplessi, ma dal punto di vista visivo i ragazzi non pagano dazi a nessuno. La fotografia sghemba, distorta del film, di Paolo Carnera, mi ricorda certe sonorità inimitabili di Lou Reed. Qui la ricerca formale di disarmonie lavora sulla claustrofobia degli interni e su primi piani entomologici.

Dedica finale degli autori alla regista Valentina Pedicini, morta a 42 anni un pugno di mesi fa. E a questo punto, tra il pubblico degli addetti ai lavori, è scattato un lampo di autentica e partecipata empatia.

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