Quella trattoria fiorentina così citata nella letteratura italiana del Novecento, il Sangue Marcio di Manzini e una bibita frizzante al mandarino che nella Situation Room se la sognano. Torna la rubrica di cenette sentimentali e settimanali con i lettori vecchi e nuovi.
Domenica scorsa
Il «sentimento italiano senza nome», di cui scrive come ho già avuto modo di dire Goffredo Parise nei Sillabari, fu suscitato da tre cose: «La grotta sottomarina dei Faraglioni, le trippe del ristorante Troja di Firenze, il film La dolce vita».
Il nome preciso della trattoria fiorentina è “Da Sostanza, detto il Troja” e un purissimo sentimento con nome e cognome (proustiano) mi travolge quando ripenso all’insuperabile tortino di carciofi del Troja (Parise lo avrà mai assaggiato?). Quella di Parise è la seconda citazione del Sostanza nella grande letteratura italiana novecentesca. La prima è di Gadda. Non ricordo più in quale opera. Ricordo però che per dare l’idea dello sguardo smorto di un personaggio (una donna, mi pare), Gadda scrisse che aveva gli occhi spenti di chi nella vita non ha mai mangiato una bistecca del Troja.
Come sono suggestivi i nomi dei ristoranti fiorentini, toscani in genere. “Da Bibe a Ponte all’Asse”, celebrato da Montale con versi indimenticabili. Oppure “Da Caino” ai Poderi di Montemerano.
Mi ha scritto il lettore Aldo De Rosa: «Non la invidio nella sua difficile ricerca riguardante il sentimento di Parise, forse alcune scene di qualche film di Sorrentino...».
Caro Aldo, non ho trovato sentimenti italiani senza nome finora. Mi sono però imbattuto in due sentimenti americani senza nome, se così possiamo chiamarli. Li ho trovati in Philip K. Dick. Il primo è stato provocato, a un certo punto di L’uomo nell’alto castello, da una scatola per gioielli contenente «un pezzo assolutamente autentico della vecchia e morente cultura degli Stati Uniti, un raro manufatto che conserva ancora il sapore dei giorni felici di un tempo». Dopo un giusto momento di suspense la scatola viene aperta: «All’interno, poggiato su un cuscinetto di velluto nero, c’era un orologio da polso di Topolino».
Il secondo sentimento americano senza nome l’ho trovato in Tempo fuori luogo, un altro dei romanzi di Dick presente nel bel Meridiano (Mondadori) che ne raccoglie le opere. In una scena tre personaggi sfogliano una rivista che non hanno mai visto rapiti dalla foto a colori a tutta pagina di una ragazza sconosciuta che, chinata in avanti, mostra generosamente il petto. «Aveva l’aria di essere il seno più liscio, sodo e naturale del mondo. E anche molto caldo, all’aspetto». Un personaggio guardando quel corpo procace pensa: «Ecco la risposta al nostro bisogno di una madre».
Siamo negli anni Cinquanta, in un tipico sobborgo come ce ne sono tanti negli Stati Uniti. Ma la dimensione non è la nostra abituale, è una dimensione parallela, una replica del nostro mondo i cui abitanti ignorano l’identità di questa donna stupenda dai lineamenti delicati, dolce e raffinata ma, nello stesso tempo, «sensuale». Alla fine i tre personaggi leggono la didascalia sotto la foto che li ha sedotti: «Marilyn Monroe durante la sua visita in Inghilterra, in occasione delle riprese del film con sir Laurence Olivier». Una attrice che si chiama Marilyn Monroe? I tre personaggi si guardano stupiti. Chi era costei?
Così Dick ebbe la visione profetica di un continente che si sarebbe perduto, una nuova Atlantide che era stata la patria di Topolino e di Marilyn. Sentimento americano senza nome di un’America che non c’è più? Mi è tornata in mente una cosa letta in Scrivere dal vero, di Riccardo Staglianò, manuale di giornalismo narrativo pubblicato da Sellerio: una frase che Martin Amis scrisse molti anni fa (profeticamente?) su Donald Trump, precisamente sul suo «istinto da coccodrillo per le prede inerti, preferibilmente moribonde».
Sono quasi le sei e devo correre. Al Teatro Greco è di scena Edipo a Colono di Sofocle. Mai come ora ho necessità di un tocco di classico.
Lunedì
Ho portato tre libri qui a Siracusa e li alterno nella lettura. Uno è il nuovo Stephen King, Never Flinch, sottotitolo “La lotteria degli innocenti” (Sperling & Kupfer). Ho appuntato una frase: «Di solito non si diventa famosi se si è gradevoli». Parole sante.
Il secondo libro è Sangue marcio, romanzo d’esordio di Antonio Manzini, uscito vent’anni fa da Fazi e ora ripubblicato da Piemme. Sono quasi arrivato alla fine e sono sconcertato. Come ho fatto a perdermi questo libro bello e terribile? È il suo primo romanzo, ma sembra l’ultimo.
Il terzo libro è Digressione (Einaudi stile libero) di Gian Marco Griffi, il maestro (al primo colpo) di Ferrovie del Messico. Più di mille pagine, un’Odissea nella storia e nello spazio (letterario, la quarta dimensione del mondo). D’altra parte l’Odissea di Omero non è che una lunghissima digressione.
Accade una cosa unica al mondo a Siracusa. Succede, come a me stamattina, che uno va al mare (i soliti meravigliosi scogli del Plemmirio), fa un po’ di immersioni ed esplorazioni del fondale, prende il sole. Verso le tre mangia qualcosa (insalata di arance e cipolle, per dire), beve (anche in onore della rubrica) una Moretti filtrata a freddo, e ascolta le conversazioni di due coppie sulla quarantina al tavolo accanto. Parlano dell’Edipo di ieri sera.
Parlano di Antigone come di una che conoscono bene, di una loro amica (d’altronde qui sin da bambini li portano a vedere le tragedie greche come in altri posti portano i bambini alle giostre). Antigone ieri sera era Fotinì Peluso, una giovane attrice che mi è parsa molto brava.
Poi ho scoperto che l’avevo già notata in una serie tv nosocomiale, in cui faceva la parte di una mamma influencer molto stronza, e nel film Il colibrì, dove interpretava un personaggio assai tragico, la sorella suicida del protagonista. Ieri sera a Fotinì è successa una cosa buffa, mentre usciva di scena mi è sembrato che le sia scappato un “okay” alla fine di un dialogo. La cosa me l’ha resa ancora più simpatica.
Lo spettacolo era molto semplice e lineare, ma (Fotinì a parte) scarseggiava in teatralità. Però Sofocle ha funzionato egregiamente come antidoto alle immagini di Trump che stanotte sganciava bombe dalla Situation Room con in testa quel cappellino da idiota, quello rosso con la visiera enorme da cui ormai sembra inseparabile.
Martedì
In attesa del volo per Milano di stasera sfoglio il catalogo della mostra dedicata a Pippo Iacono che è stato il fotografo di Siracusa dagli anni Cinquanta agli Ottanta. Aveva lo studio nel cortile Verga, in via delle Maestranze 33. Lui scattava le foto mentre la moglie Santina, parrucchiera, acconciava i modelli per i ritratti. Pippo immortalò cerimonie (matrimoni, battesimi, cresime, funerali, veglioni di Carnevale che sembrano usciti dai Vitelloni di Fellini), ma anche episodi di vita quotidiana come le foto ricordo di famiglie che avevano appena acquistato la prima televisione o il primo frigorifero (siamo negli anni del Boom economico).
Salvatore Zito ha scritto che Iacono è un esempio di fotografia vernacolare o domestica, quella che «riprende gli archetipi della società e, quindi, il nostro inconscio…».
Guardo la foto di un matrimonio al Santuario provvisorio della Madonna delle Lacrime in piazza Euripide fatta da Iacono nel 1959. Guardo i ritratti raccapriccianti che circolano in queste ore di Jeff Bezos e di Lauren Sánchez. Più che la sua futura moglie sembra il tender (labbroni a canotto, tette a pallone medicinale) del suo yacht (c’entra l’inconscio?). Era meglio il 1959 con i santuari provvisori, con Marilyn ancora viva. Il catalogo di Pippo Iacono è un catalogo di sentimento siciliano senza nome alla Goffredo Parise.
Mercoledì
Alla presentazione di Sangue marcio da Rizzoli a Milano in Galleria, ripeto al pubblico le parole di Martina Donati, scopritrice vent’anni fa del libro, che ricorda quando lesse il manoscritto e dà la perfetta definizione dello stile dell’autore: «La scrittura di Manzini mi avvolse come una coperta di lana grezza: pizzicava, ma scaldava tantissimo. Era viva, ruvida, onesta».
Giovedì e ieri
Devo scrivere una cosa su Camilleri e sono in scadenza. Lavoro fino a quando gli occhi, come avrebbe scritto lui, non mi fanno «pupi pupi» dalla stanchezza. Cosa non darei per qualche bottiglia ghiacciata di Mandarino verde, inimitabile bibita frizzante della ditta Polara di Modica. Meglio della Coca Cola, lo sappiano alla Situation Room.
Per scrivere ad Antonio D’Orrico: lettori@editorialedomani.it
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