Lo scudetto del Napoli, la mania delle interviste inutili, il ricordo del cane di Corleone. Ma in questa settimana spicca la lettura del libro della più brava scrittrice italiana, romanzo-memoir-inchiesta-requiem, un ritorno a casa che segna il coronamento dell’arte narrativa e investigativa. Una storia perennemente in bilico, miracoloso esercizio di stile, e sull’orlo del precipizio i lettori stanno sospesi fino all’ultima riga
Domenica
Ho letto molte novità in queste ultime settimane e il libro più bello di tutti (bello bello bello) è Cartella clinica di Serena Vitale (Sellerio). Comincia a Brindisi alla fine degli scorsi anni Quaranta nel vicolo che è detto buono. Nell’altro vicolo, detto cattivo, c’era il bordello dei marinai (è quasi una toponomastica da Monopoli, con gli indimenticabili Vicolo Corto e Vicolo Stretto).
Nel Vicolo Buono di Brindisi si affiggevano (e affliggevano) i manifesti mortuari. Una sera, Serena, una bambina che già sapeva leggere e leggeva tutto, compresi gli annunci funebri, chiese: «Mamma, ma perché non se ne vanno via tutti da quella casa?». La mamma le chiese di quale casa parlava e lei indicò «una delle tante scritte in grandi caratteri neri: I funerali partiranno dalla casa dell’Estinto alle ore… “Non hanno ancora capito che là dentro muoiono tutti?”».
Quella sera Serena Vitale cominciò a diventare la grande scrittrice che è poi diventata, la più grande delle italiane contemporanee (per l’apertura alare, l’altezza del suo volo: non segue dibattito), la scrittrice di Il bottone di Puškin, e ora di Cartella clinica. Non sono semplici libri, sono, come dicono i napoletani dei figli, pezzi di cuore.
Il cuore di Cartella clinica è la sorella di Serena, si chiamava Rossana, aveva quattro anni più di lei, era bella e aveva un futuro da bravissima pianista, da concertista (c’era una vena musicale in famiglia da parte di padre).
Una volta Enzo Siciliano, letterato finissimo e sincero ammiratore di Serena, mi disse che: «la Vitale troverà la sua definitiva realizzazione quando al posto dei poeti russi racconterà i baroni della sua terra, della Puglia, le loro vite matte e disperate». Non mi trovai d’accordo allora con Siciliano. Le sue parole mi sembrarono riduttive di un capolavoro come Il bottone di Puškin, un capolavoro per cui avevo perso la testa tanto che un giorno pregai Roberto Calasso, che l’aveva pubblicato da Adelphi, di prendere il primo volo e convincere un grande produttore hollywoodiano a farne un film da Oscar. Mi ero anche fatto l’idea che il regista ideale sarebbe stato Miloš Forman.
D’altra parte, non ero solo a venerare quel romanzo. Mi trovavo in ottima compagnia. Fruttero e Lucentini avevano scritto cose memorabili a proposito del Bottone (e ricorrendo anche loro a termini cinematografici): «Il montaggio della Vitale è perfetto, generoso e stringente insieme. Da lettere, diari, memorie, rapporti della polizia segreta escono personaggi memorabili, frivole figurette, loschi maneggioni, spie, provocatori, potenti cortigiani, servi sciocchi. È la società stravagante e fastosa che ritroveremo in Tolstoj, ma è anche un coro del teatro classico: informatissimo e profetico, osserva impotente gli eventi precipitare giorno per giorno, ora per ora, dalla commedia, talvolta farsa, di costume, al compimento della tragedia entro un breve spiazzo sgombrato dalla neve, il 27 gennaio 1837».
Lunedì
Leggendo Cartella clinica ho capito che Siciliano aveva ragione. Questo romanzo-memoir-inchiesta-requiem è un ritorno a casa che segna il coronamento dell’arte narrativa e investigativa della scrittrice. Solo che la pazzia e la disperazione non sono quelle vitalistiche dei baroni pugliesi (larger than life) per cui Siciliano faceva il tifo, ma la pazzia e la disperazione di Rossana, che a 17 anni un giorno d’aprile «cominciò a guardarsi allo specchio con insistenza, preoccupata di avere gli occhi “storti”», come scrissero nell’anamnesi i medici della «CASA DI CURA VILLA VERDE – LECCE PER ESAURITI NERVOSI MENTALI». E fu l’inizio di una fine veloce, inarrestabile, lo spalancarsi di un abisso.
Sull’orlo di questo abisso Serena racconta la storia, perennemente in bilico (che è miracoloso esercizio di stile, lo stile della vertigine), e sull’orlo del precipizio tiene sospesi i lettori fino all’ultima riga. Lo fa usando lo stesso metodo usato per Puškin: il montaggio perfetto di cui parlavano Fruttero e Lucentini, però al posto dei rapporti della polizia segreta russa ci sono i referti dei dottori, al posto della pettegola società pietroburghese c’è la società brindisina del tempo a decretare quella specie di apartheid che colpisce immancabilmente le famiglie toccate dalla follia.
Devo fermarmi. Scrivere di Cartella clinica mi strazia. Ci sono ancora molte cose da dire, di lodi in cui profondersi (ma con il pudore dovuto al dolore). Ci saranno altre occasioni per dirle. È soltanto la prima puntata, non finisce certo qui Cartella clinica, una storia dalla gestazione lunga una intera vita.
Martedì
Il Napoli ha vinto giustamente lo scudetto e l’ha vinto per umiltà. L’Inter, favoritissima, ha peccato del suo antico vizio, il bauscismo (anche Mourinho non ne fu indenne), con tutte quelle dichiarazioni, quelle licitazioni da grande slam (il triplete). Sembrava il gioco del bridge, non quello del calcio (quanto male fa la comunicazione). Il Napoli ha vinto grazie soprattutto a mister Conte (un vero satanasso, direbbe Tex Willer) e al formidabile, possente, acrobatico e cruciale Scott McTominay.
Mercoledì
Non è il migliore dei mondi possibili quello attuale. Così per dire: 7 aprile 1966, sul primo canale della Rai ci sono i Beatles; sul secondo un’intervista a Jean-Paul Sartre. Forse il migliore dei mondi possibili c’è già stato.
La mania delle interviste sui giornali (e non certo a Sartre) è ormai patologica, preoccupante. Me la spiego con la motivazione del Nobel per la letteratura 2005 ad Harold Pinter: «nelle sue opere scopre il baratro sotto il chiacchiericcio quotidiano».
Il monopolio dell’intervista ha soffocato gli altri generi giornalistici. Non si scrivono più interviste narrative (quelle che non seguono l’imperante schema domande&risposte). Non si scrivono più ritratti (gli ultimi belli li faceva Marco Ferrante sul Foglio). Le inchieste sono ormai latitanti. Ne avremmo molto bisogno. Senza scomodare Giorgio Bocca, ma un pochino anche sì, e l’incipit del suo leggendario pezzo su Vigevano nell’Italia del boom economico: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una. Tutti ricchi, ma la vita a Vigevano è noiosissima, lo spettacolo, al di là dei tre giorni di opera lirica, di maggior successo è stato lo show della cantante Wilma De Angelis».
Le inchieste migliori sono quelle in cui si fa una domanda secca, una e una sola, sempre la stessa. Lo dicono i manuali di giornalismo e fanno l’esempio di Giuseppe Fava. Andò a Corleone a chiedere a chiunque incontrava: «Ma perché qui si ammazza così tanto?». Nessuno gli rispondeva. L’inchiesta più bella mai fatta sulla mafia. Infatti, Pippo Fava dopo averla finita venne ucciso.
Una volta sono andato anche io a Corleone per un reportage e mi sono messo a pedinare un cane, famoso nel paese perché di sua iniziativa scortava sempre fino al cimitero i funerali. Lo seguii per una giornata intera.
Giovedì
Difficile leggere dopo Cartella clinica, tutto mi sembra vuoto e goffo (anche un po’ bauscia, a partire da questa rubrica). Per fortuna mi è arrivato il Meridiano Mondadori di Jane Austen. Lo apro e mi incanto come un disco rotto davanti alla comparsa di una crostata all’uva spina in Mansfield Park, raccontata come una portentosa apparizione. Un’epifania, si diceva una volta.
Preparativi viaggio a Monaco per finale di Champions.
Venerdì
Partiti. Mail deliziosamente velenosa di Silvano Calzini, «vecchio cuore rossonero». Scrive: «Per la finale, vinca il migliore, ma come disse una volta il paròn Nereo Rocco: “Ciò, speremo de no”». E aggiunge: «Sulla epica vittoria dell’Inter contro il Barcellona, il commento migliore resta per distacco quello di Spillo Altobelli fatto anni prima che si giocasse la partita: “Questa Inter è come un carro armato a vele spiegate”».
Perché mai in viaggio mi torna in mente la tesi in filosofia del mister Francesco Farioli dal titolo Filosofia del gioco: l’estetica del calcio e il ruolo del portiere?
Per scrivere ad Antonio D’Orrico la mail è lettori@editorialedomani.it
© Riproduzione riservata