Francia 1654. La guerra dei Trent’anni è finita da poco ma permane quella con la Spagna; parlamento e nobiltà si sono ribellati a Mazarino, mentre Luigi XIV è ancora adolescente. Appena placatasi la fronda nobiliare, approfittando di una pausa nella turbolenza dei tempi, Madeleine de Scudéry pubblica un lunghissimo romanzo intitolato Clelia o la storia romana. La storia romana è in realtà un travestimento superficiale, le vicende sentimentali raccontano “a chiave” un reale amore dell’autrice e i pettegolezzi dei salotti – il successo tra le lettrici intellettuali è immediato. È un libro scritto da una donna per le donne, per metterle in guardia contro i rischi di abbandonarsi all’amore; siccome l’amore, vi si sostiene, «Non si lascia governare dalla ragione, ha bisogno di tenerezza per non inciampare nella brutalità» (degli uomini, si intende).

La carta del Tenero

Verso la fine della prima parte Mademoiselle de Scudéry fa stampare nel testo la cartina topografica di un territorio allegorico che lei chiama il «Paese di Tenero»; questa cartina, diventata famosa come Carta del Tenero, è sopravvissuta all’oblio che è toccato al (noioso) romanzo: vi faranno riferimento Rousseau e Baudelaire, vi si accenna in un film di Godard e in una canzone di Brassens.

In questo territorio immaginario, per arrivare alla città di Tenerezza si deve seguire il corso di tre fiumi, chiamati Stima, Inclinazione e Riconoscenza; lungo la strada della Sincerità, attraversando le colline del Rispetto, si incontrano borghi dai nomi suggestivi (Amicizia Duratura, Piccole Attenzioni, Biglietto Galante); si deve evitare con ogni cura di imboccare i sentieri della Freddezza e della Disuguaglianza, perché conducono al mortale lago dell’Indifferenza. Nei prati fioriscono i fiori del Linguaggio Delicato – i fiumi scorrono tranquilli e placidi mentre il mare è pericoloso perché ci nuotano le Passioni (la sola passione positiva è quella che conduce i maschi «verso i nobili sentimenti»). È uno dei primi documenti del femminismo moderno: quelle donne raffinate ed emancipate elaborano anche un linguaggio prezioso, con perifrasi barocche per evitare termini troppo crudi, alcune parole vengono espunte come inopportune (per esempio si consiglia di non usare nel corteggiamento la parola «faccia», perché la gente volgare è usa offendersi reciprocamente dicendo «faccia di Turco»). La preoccupazione didattica ed etica (educare i maschi alla sensibilità) diventa presto un gioco mondano non privo di esagerazioni, al punto che già cinque anni dopo, nel 1659, Molière ne farà oggetto di burla nella sua commedia Le preziose ridicole.  

Forse sarò matto, ma la memoria mi è tornata irresistibilmente a questo momento della letteratura francese leggendo, e ascoltando, alcuni testi italiani contemporanei; ho avuto l’impressione che si stia recuperando, magari inconsapevolmente, una sorta di Carta del Tenero 2.0. È un’impressione generale e un po’ vaga, è come un’aria che si respira – così ho deciso, per non disperdermi, di partire da due testi precisi: un podcast di Selvaggia Lucarelli e un romanzo di Camilla Boniardi. Due persone che più diverse non si potrebbe, ma che forse proprio per questo possono essere indicative di quanto il fenomeno di cui voglio parlare sia diffuso. Due diverse generazioni: da una parte una giornalista esperta, donna eclettica e sicura di sé, spesso critica col mondo dei social, dall’altra una giovane e seguitissima influencer alla sua prima prova narrativa, una ragazza che sui social ha fatto del proprio senso di inadeguatezza la sua arma vincente.

New addictions

Il podcast della Lucarelli (prodotto da Chora Media) si intitola Proprio a me, sette episodi sulla “dipendenza affettiva”: locuzione di cui una psicologa, nel settimo, dà una definizione medica comprendendola nel gruppo delle new addictions. Ecco, è proprio su questo bisogno di medicalizzare l’ossessione che vorrei capire di più: la Lucarelli insiste sulla distinzione tra «amori infelici» e «amori disfunzionali» – ci sono dunque amori infelici ma funzionali? E su che cosa sarebbero fondati se non su due nevrosi che si incastrano, sull’incontro col nostro angelo nero, sulla sensazione del “nec tecum nec sine te vivere possum”? La letteratura ce ne dà infiniti esempi, e pure l’esperienza. Quando tutto questo arriva al punto da mettere a rischio la nostra vita, certo invece di suicidarsi come si fa nei romanzi è meglio darsi una scossa, e magari correre dall’analista; ma prima, negare la qualifica di «amore» a ogni relazione che faccia soffrire troppo, essere spasmodicamente attenti ai «campanelli d’allarme», colpevolizzarsi per le proprie tare nevrotiche, non rischia di privarci proprio della cognizione del dolore? Quanti di noi, usciti da un’ossessione amorosa, hanno poi ricordato con dolcezza quella splendida droga che ci faceva vivere nell’eccezione?

La Lucarelli nel podcast fa un buon lavoro di intervistatrice, ma elimina dalle storie che racconta tutto il fascino della perdizione, cercando di ricondurle verso una «salute» ritrovata. È vero che la cronaca ci presenta insopportabili casi di femminicidio, ed è vero che, come dice un proverbio francese, «gatto scottato teme l’acqua fredda»; ma andare nelle scuole col manuale delle new addictions in mano, e spiegare alla lavagna quali sono i sintomi da cui fuggire per non cadere nella dipendenza, non rischia di normalizzare e appiattire negli adolescenti quel dio splendido e terribile che è l’eros, eternamente affamato e assetato?

Potatura dell’eros

Una conferma sembra arrivare dal romanzo della Boniardi, Per tutto il resto dei miei sbagli (Mondadori). È un romanzo rosa, con tanto di lieto fine, ma la protagonista si dichiara affetta da «insicurezza cronica» – e si ha l’impressione che si tratti di insicurezza generazionale più ancora che personale. La protagonista ha venticinque anni ma parla e agisce come se ne avesse sedici; la madre l’ha messa in guardia fin da ragazzina: «Se si posa una piccola ombra all’inizio di un rapporto… col tempo si farà sempre più grande e oscurerà tutto». Così è cresciuta nel terrore che un amore sbagliato la faccia soffrire; vede la sua amica del cuore preda di una «schiavitù mentale e psicologica» e non vede l’ora che l’amica sappia «amputare quell’arto malato dalla sua vita». Così quando arriva il Grande Amore deve essere uno che parla, parla, perché «le parole sono importanti» – uno che chiede scusa di «essersi presentato alla sua porta senza chiedere permesso»; lui l’abbandona temporaneamente e quando torna lei lo desidera ancora, ma considera quel desiderio «una maledizione», così lui dovrà riscattarsi «travasando il suo amore in piccole attenzioni», e naturalmente parlando tantissimo. Così terrorizzati li abbiamo resi, i nostri nipoti, dalla forza dell’eros?

Lo spavento porta alla difesa e la difesa è il galateo; un galateo che si presenta anzitutto come un manuale di buona educazione sentimentale, fatto di ragionevolezza, di esclusione di qualunque elemento distruttivo, di promozione dell’affettuosità (la Carta del Tenero, appunto), di gimkana tra comportamenti leciti e illeciti, di condanna di tutto ciò che escluda la reciproca comprensione. Come se l’amore fosse un tutorial. A cosa porterà questa potatura dell’eros, questo modellarlo in forme gentili secondo le regole dell’arte topiaria, come se una foresta intricata e piena di insidie potesse diventare un ordinato giardino all’italiana?

Quando, più di vent’anni dopo, Luigi XIV avrà vinto la resistenza dei nobili nella gabbia dorata di Versailles, un teatrante geniale racconterà la storia di una donna che nutre un desiderio incestuoso per il proprio figliastro; al rifiuto scandalizzato di quest’ultimo, la matrigna lo accusa falsamente di aver tentato di stuprarla e il marito e padre, credendo a lei, decreterà la morte del figlio. I mostri interni ed esterni risorgono quando il contesto appare più solido; che facciamo con la Fedra di Racine, la intervistiamo per un podcast?

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